È una verità universalmente riconosciuta che una vita non sia sufficiente per conoscere tutto il mondo. Per quanto curiosi, avventurosi o anche solo facilmente distraibili, ognuno di noi dovrebbe sapere che non è materialmente possibile conoscere tutto. Nonostante questo, uscire dalla mia normalità di amici, abitudini, percorsi quotidiani e passioni totalizzanti, ha sempre un effetto destabilizzante e sorprendente: mi ricorda insomma ogni volta l’enormità del resto là fuori dalla bolla. Il fine-settimana appena passato l’ho trascorso a Roma con Sara, la mia ragazza appassionata di cinema e serie tv, che mi ha convinto a partecipare all’Irish Film Festa, un festival nato nel 2007 con l’intento non troppo imprevedibile di promuovere la cinematografia irlandese in Italia. È qui che ho scoperto i cortometraggi.

Sia chiaro, ero consapevole della loro esistenza fin da prima, ma non avevo mai pensato a loro in termini di interesse. Certo, nel mio flusso di notizie quotidiano i corti esistevano anche prima, ma erano diventati una concrezione linguistico mentale che suona più o meno così: «ilnuovocortodellapixar». Invece, dopo due sessioni da 10, mi sono reso conto non solo della loro esistenza, ma che esiste un universo culturale con molte similitudini con quello dei racconti: festival, riviste, registi e ovviamente appassionati che hanno al centro del loro universo film brevi e brevissimi. Con alcune notevoli differenze: da quando le connessioni veloci hanno cambiato il nostro modo di usare internet, il cortometraggio in realtà è diventato IL prodotto culturale contemporaneo. Youtube, Facebook, Instagram, Tik Tok, quasi ogni social network è predisposto per la produzione e la condivisione di prodotti fatti in casa, ma oramai non è inusuale trovare anche prodotti di elevata qualità.
Short film is where innovative storytelling is born. With the internet, the quality and diversity of fresh voices is exploding, yet it’s harder than ever for emerging filmmakers to reach a wider audience and break into the industry.
Così recita l’about di www.shortoftheweek.com, una piattaforma di promozione di cortometraggi di qualità, sponsorizzata da uno come Cory Fukunaga (True Detective e Maniac) e un ottimo posto da cui partire per esplorare il genere. Ricorda due cose importanti e che valgono anche per i racconti: viviamo in un epoca di sovrapproduzione, in cui è difficile identificare la qualità; molti autori utilizzano la forma breve come trampolino di lancio per qualcosa di più sostanzioso. Seppur animata da eventi e attori forse più frizzanti e intraprendenti rispetto al mondo degli scritti brevi, quello dei corti cinematografici è ancora un ambiente ristretto, spesso confinato ai festival. Per noi lettori e per gli scrittori là fuori, uscire dalla bolla, scoprire, imparare, e soprattutto confrontarsi con ciò che il mondo e il resto delle discipline artistiche ci propongono è ancora più importante e utile a ciò che facciamo.
[…] scrivere è un “produrre”, anzi un trasformare: chi scrive trasforma le proprie esperienze in una forma tale da essere accessibile e gradita al “cliente” che leggerà. Le esperienze (nel senso vasto: le esperienze di vita) sono dunque una materia prima: lo scrittore che ne manca lavora a vuoto, crede di scrivere ma scrive pagine vuote. Ora, le cose che ho viste, sperimentate e fatte nella mia precedente incarnazione sono oggi, per me scrittore, una fonte preziosa di materie prime, di fatti da raccontare, e non solo di fatti: anche di quelle emozioni fondamentali che sono il misurarsi con la materia (che è un giudice imparziale, impassibile ma durissimo: se sbagli ti punisce senza pietà), il vincere, il rimanere sconfitti.
Bisogna essere onesti, né io né Primo Levi in queste parole dal brevissimo saggio Ex chimico lo intendiamo in modo assoluto. Emily Dickinson è stata una grande poetessa senza quasi mai uscire di casa e non basta un viaggio in America Latina o un corso di falegnameria per scrivere come Kerouac. Significa solo vivere e pensare un po’, prima di mettersi a scrivere. E forse non è un caso che tra i cortometraggi dell’Irish Film Festa ad emergere fossero proprio i documentari: Mother & Baby di Mia Mullarkey, reportage sulle indagini che hanno portato alla scoperta dei maltrattamenti nelle Mother & Baby Homes, istituti religiosi per madri e i loro figli avuti fuori dal matrimonio; The Swimmer di Thomas Beug basato sulla storia di Stephen Redmond, primo nuotatore a completare la Ocean’s Seven; Inhale di Sean Mullan che racconta la vita semplice ma segnata dai lutti di suo zio allevatore di cavalli; Pigeons of Discontent di Paddy Cahill, che affronta la gentrificazione del quartiere Stoneybatter di Dublino attraverso le opinioni dei residenti sui piccioni.
Per me il cortometraggio migliore però è stato proprio questo, il racconto poetico ed epico di quello che sembra un qualsiasi irlandese sovrappeso ma che in realtà è stato il primo nuotatore ad affrontare gli Ocean’s Seven, sette stretti in mare aperto, dalla Manica allo Stretto di Gibilterra. Il corto non è al momento disponibile su alcuna piattaforma, vi dovrete quindi accontentare del trailer e delle mie parole.
Once I started researching open-water swimming in Ireland, Stephen’s name came up quickly. He’s a bit of an unsung hero in the world of long-distance swimming and a bit of a legend in the swimming community. It being Ireland, I got his number from a friend who happened to know him and as soon as I spoke with him, I knew he’d make a great subject for a film. He’s articulate, he’s funny and he looks at the world from the unique perspective of somebody who admits to feeling more at home in the water than on land.
Questo brano, tratto dall’intervista al regista Thomas Beug sul sito specializzato The Outdoor Swimming Society (a proposito di bolle, a quanto pare la cosa di nuotare in mare aperto prendendo un sacco di freddo va tantissimo in Gran Bretagna e Irlanda), ci spiega come è nata l’idea di fare questo corto: era una bella storia da raccontare. Stephen è un personaggio, gli piace parlare e raccontarsi, spiegare come riesce a trovare la pace solo a venti miglia dalla costa, in mezzo all’oceano; di come a metà di una traversata i suoi amici morti lo vengano a trovare o che tiene il ritmo delle bracciate ripetendo i nomi dei due figli come un mantra. Fuori la natura selvaggia e potente del mare aperto. Una storia che si scrive da sola. E invece no.
Sia Thomas Beug che Primo Levi sanno che le storie bisogna saperle raccontare, non basta che siano dei bei fatti. Non basta la materia prima, bisogna anche saperla lavorare. E la storia di Stephen non sarebbe stata la stessa senza le riprese aeree con il drone che isolano il nuotatore tra le onde nere, senza la maestria delle riprese subacquee del cameraman, senza le parole di A Swim in Co. Wicklow, una poesia di Derek Mahon, uno dei più grandi poeti irlandesi contemporanei, che danno ritmo e senso al racconto.
Spindrift, crustacean patience
and a gust of ozone,
you come back once more
to this dazzling shore,
its warm uterine rinse,
heart-racing heave and groan.
Attraverso la costruzione di immagini, parole, suoni. Il regista crea una nuova storia, che non possiamo più definire realistica: è a tratti onirica, epica, lirica. È andato oltre il documentario, lo ha trasfigurato. Ed è facile notare la differenza guardando altri film basati quasi sulle stesse storie ma con finalità diverse: i risultati sono completamente differenti. Swimmer di Lynne Ramsay, Chasing the sublime di Amanda Bluglass o Swim Wild dell’agenzia ClickON MEDIA. In The swimmer, il racconto trascende l’attività sportiva, gli sponsor, ha un linguaggio sperimentale ma accessibile e che arricchisce il racconto senza fargli perdere “clienti”.
Così sono i racconti di John Cheever, e una delle sue storie brevi si intitola proprio Il nuotatore. Neddy Merrill è un ricco uomo bianco, WASP, incarnazione del sogno americano che si muove in un ambiente suburbano fatto di ville, parchi privati e piscine. Ed è appunto nuotando attraverso tutte le piscine del vicinato che una domenica decide di tornare a casa sua. Un simpatico scherzo, una buffa impresa di cui ridere alla prossima festa in piscina. Con maestria e mestiere, Cheever ci trascina dietro il nostro nuotatore di piscina in piscina, coreografando l’ambiente, le parole, gli incontri e far convergere i piani di lettura e i punti di vista verso il finale tragico.
Non aveva firmato niente, non aveva giurato niente, non aveva sottoscritto impegni con nessuno, nemmeno con se stesso. E perché, allora, pur convinto com’era che tutto l’orgoglio umano doveva essere subordinato al buonsenso, non era capace di voltarsi e di tornare indietro? Perché era così deciso a portare a termine il suo viaggio, anche se ciò poteva mettere a repentaglio la sua stessa vita? Quand’era successo che quel gioco, quello scherzo, quell’esibizione erano divenuti una cosa seria? Non poteva tornare indietro, e non riusciva nemmeno a ricordare chiaramente l’acqua verde della piscina dei Westerhazy, la sensazione che aveva provato di respirare le componenti di quella giornata, le voci rilassate degli amici che dicevano di aver bevuto troppo. Nello spazio di un’ora, più o meno, aveva percorso una distanza che rendeva impossibile il suo ritorno.
Chissà, forse John Cheever aveva sentito una smargiassata simile proprio ad una festa in piscina, il racconto è stato scritto dopo il suo trasferimento proprio in una di queste ville suburbane. Ma è stato lui a mettere insieme i pezzi e a trasformare una piccola idea in un grande racconto. Respiriamo, l’articolo è finito, prendiamo fiato ma solo per un attimo, torniamo a immergerci nella nostra bolla.