Nostalgia di un altro mondo di Ottessa Moshfegh

Ad un certo punto del suo articolo dedicato alla Trilogia di Grouse County, comparso su Minima&moralia, Gianni Montieri scrive una frase che ho riletto almeno un paio di volte, come sempre mi accade quando qualcuno riesce ad esprimere con precisione e semplicità lo stesso sentire che provo io nei confronti di qualcosa:

«Datemi un luogo in cui non vivrei mai e mettetelo un romanzo. Datemi le sigarette che non ho mai fumato, datemi l’ubriacone che non sono mai stato. Fatemi leggere di donne e uomini disperati, fategli trovare conforto».1

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Queste considerazioni rispondono benissimo a quello che provo quando mi capita di leggere una di queste storie con protagonisti tizi del genere, ma dove in fondo non succede un granché, ambientate in uno di quegli innumerevoli luoghi americani capaci di darti un forte senso di desolazione da un parte, ma di estrema quiete e tranquillità dall’altra. Provo piacere nel sentire quella specie di calore che, forse paradossalmente, sono in grado di trasmettere il senso di vuoto intorno ai personaggi, la lentezza, i gesti abitudinari, lontani da tutto ciò che è dinamico e offre un’infinita gamma di possibilità e distrazioni.

Ma è soprattutto il pensiero delle distanze fisiche tra le cittadine e le grandi città, il lato materiale della questione, i chilometri di asfalto da percorrere o i climi ostili di certe zone, oltre che lo stato mentale, che nella mia testa rendono ostiche quelle vite. E mi capita spesso mentre leggo un libro, di andare a cercare immediatamente le immagini e la posizione geografica delle varie città o contee a cui si fa riferimento perché sono curioso, al di là della mia immaginazione, di capire qual è il paesaggio reale che sta facendo da sfondo ad un storia. Mi aiuta molto avere il riscontro di un luogo vero, preciso, perché mi interessa vedere se la realtà corrisponde o meno all’impressione che ne ho ricavato attraverso la prosa dell’autore.

L’ho fatto anche questa volta, non appena sono arrivato alla terza riga di questo feroce incipit di La casa di villeggiatura, uno dei quattordici racconti che compongono Nostalgia di un altro mondo di Ottessa Moshfegh, autrice americana di padre iraniano e madre croata.

«Si capiva solo guardandoli – chiazze di bibita gusto uva sulle magliette dei bambini, tinte casalinghe dei capelli, denti malconci -, gli abitanti di Alna erano poveri (…) Lo squallore della città era rassicurante, come un vecchio film in bianco e nero».2

A introdurci in questa derelitta città del Maine è un’insegnante delle superiori che grazie ai prezzi d’acquisto bassi della zona si è comprata una villetta come casa vacanze. Non le interessa socializzare, non le interessa fare nulla di esaltante, ma solo starsene lontana da tutto trovando il più delle volte sollievo in un po’ di droga. Fa lunghe passeggiate fermandosi ogni tanto dalle parti del deposito degli autobus per comprare un qualsiasi tipo di droga che gli spacciatori, che lei chiama zombie, hanno sottomano in quel momento. Alna è piena di eroina e metanfetamine e lo si vede, prima ancora che dai denti e dall’aspetto fisico, dalla faccia della gente.
La nostra insegnante, considerata ricca per gli standard del posto, sembra rilassarsi immersa nel disagio degli abitanti e nei suoi dieci dollari di roba.
Il suo sguardo, seppur a volte dia l’impressione di essere quello di chi si sente superiore, è sì impietoso ma mai giudicante. Si limita a constatare il degrado umano e urbano, non c’è sarcasmo né cinismo nelle sue parole.

«Clark aveva legato i coperchi della spazzatura alle maniglie con una catena. Chissà perché, alla gente di Alna piaceva rubare i coperchi e buttarli nell’Omec. Era uno dei passatempi estivi preferiti, mi aveva spiegato».3

L’unico rapporto leggermente più confidenziale è appunto quello con Clark, un abitante di Alna anche lui insegnante e che, quando lei torna in città per riprendere il lavoro, si occupa della manutenzione della casa e cerca affittuari tra gli studenti nei mesi in cui altrimenti resterebbe vuota.
Il loro rapporto è comunque superficiale e nonostante secondo la donna Clark sia pieno di difetti caratteriali e fisici, si mostra accondiscendente nei confronti delle gentilezze e carinerie dell’uomo.

Sono due le insegnanti che troviamo in questo libro, mestiere che fra l’altro Ottessa ha davvero praticato in una scuola cattolica di New York, per poi licenziarsi e andare a vivere in Cina dove ha ripreso con l’insegnamento in un scuola privata e gestendo per un po’ un bar assieme all’ex fidanzato.
Da sempre appassionata alla scrittura, fa il suo esordio con il romanzo dal titolo McGlue, al quale segue Eileen. La sua prima raccolta di racconti è appunto Nostalgia di un altro mondo (Homesick for Another World il titolo originale). Pur essendo romanzi le sue prime pubblicazioni, Ottessa ha pubblicato negli anni molti racconti sulle più importanti riviste americane, quali ad esempio Paris Review, New Yorker, Granda e Vice.

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L’altra insegnante, è protagonista del primo e bellissimo racconto della raccolta Tentativi per migliorarsi. Sfinita dai suoi studenti, che reputa mezzi incapaci, specialmente in matematica, e con un ex marito che decide di pagarla per non farsi più chiamare al telefono, la donna è circondata da uomini e amiche che hanno ben poco di gradevole e passa il suo tempo a bere e fumare assieme al fidanzato che frequenta ancora il college. Il suo obiettivo, dice, è migliorarsi. Eppure questo buon proposito viene puntualmente rimandato, giorno dopo giorno, un pensiero che si ripete così tante volte nella testa che alla fine gli anni passano e non succede nulla. Solo scendi al bar, ordini qualcosa che non ti piace per bere meno e stop, alla fine scopri che sei tranquillo così. Anche in questo sta la forza di certe storie, e cioè che quasi mai i personaggi vengono assaliti dai rimpianti.

Altro tema cardine di quasi tutti i racconti è l’aspetto fisico o meglio, i difetti fisici, presenti in praticamente tutti i racconti. Il proprio aspetto è per molti motivo di insicurezza e imbarazzo, e crea talvolta quel sentimento universale di blocco mentale, di difficoltà sociale, che unisce tutti i suoi personaggi, seppur ognuno con la propria particolarità più o meno strana.
Due racconti esemplari in questo senso, sono Il signor Wu e Il sostituto. Nel primo, un uomo si invaghisce della cassiera di una sala giochi e dopo aver recuperato il numero di telefono, comincia a scambiare con lei messaggi vagamente profondi, decidendo alla fine di incontrarsi. Arrivato il momento prestabilito il signor Wu, insicuro del proprio aspetto fisico, dirà alla donna che prima di conoscersi e parlarsi, lei dovrà giudicarlo da distante, sotto la luce di un lampione.

La donna protagonista nel racconto Il sostituto, invece, lavora per la Value Enterprise Association di proprietà di una coppia di cinesi, Lao Ting e Gigi, e viene scelta per presentarsi ai clienti e agli incontri importanti in qualità di vicepresidente, carica che le viene affidata, prima ancora che per la sua bravura, per il suo bell’aspetto. Le viene anche chiesto di scegliersi un nome adatto al ruolo, e cioè Stephanie.
Nonostante ciò, al di fuori del lavoro è terribilmente insicura a causa di un problema all’ipofisi che le causa un anomalo ingrossamento dei genitali. Frequenta così club ai margini di Los Angeles e durante le serate si traveste o si veste sempre in modo particolare e strano. Il disagio fisico le crea difficoltà nei rapporti con gli uomini e parlando con Gigi, con la quale ha costruito un ottimo rapporto, le confessa di non essere in grado di frequentare uomini normali in luoghi normali. Ha paura di non trovare l’amore, così Gigi le dice:

«Puoi vivere ad un livello superiore. Lasciati fluttuare e troverai qualcuno. È così che io ho trovato Lao Ting. Era come se ci fosse un faro acceso su di lui, e camminasse a due spanne da terra».4

Non è il tragico bestiario di americani scartati o emarginati da qualche parte nel nulla, con al massimo un paio di destini possibili, e nessuno dei quali particolarmente edificante; in realtà, i brutti vizi e le pessime abitudini sono descritte con tatto ed empatia incredibili.
Nonostante l’aspetto fisico dei suoi personaggi sia spesso al centro e causa scatenante delle paranoie e paure dei protagonisti, Moshfegh non ne scrive mai in modo morboso o inutilmente dettagliato, e trovo che la migliore definizione dello stile dell’autrice l’abbia data Paola Moretti, nella sua recensione per Esquire:

«Le loro vite ci vengono raccontate senza giudizio di merito, né commiserazione. Non con freddezza analitica, ma con la tenerezza del catalogatore, a cui il mondo piace perché offre un’infinita gamma di possibilità»5

  1. Gianni Montieri, Trilogia di Grouse County, Minima&moralia, 10 gennaio 2019
  2. Ottessa Moshfegh, “La casa di villeggiatura”, in Nostalgia di un altro mondo, Feltrinelli, 2018
  3. Ottessa Moshfegh, “La casa di villeggiatura”, in Nostalgia di un altro mondo, Feltrinelli, 2018
  4. Ottessa Moshfegh, “La casa di villeggiatura”, in Nostalgia di un altro mondo, Feltrinelli, 2018
  5. Paola Moretti, Nostalgia di un altro mondo: storie così insensate che sembrano vere, Esquire, 6 giugno 2018
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