Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer

Ho comprato Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer un po’ a scatola chiusa, nel senso che non sapevo bene cosa aspettarmi. In realtà è sempre così quando ti ritrovi per le mani qualcosa di Dyer. Essendo uno scrittore in grado di muoversi con grandissima abilità su qualsiasi terreno narrativo, non sapevo se avrei trovato storie di jazzisti, vere e proprie biografie, veri e propri racconti, oppure dei “classici” pezzi di non fiction ricchi delle sue impressioni ma molto vicini ad uno stile saggistico. Iniziata la lettura mi sono reso conto che le sue intenzioni erano proprio quelle di andare ad abbracciare tutte queste cose, come spiega lui stesso nella prefazione:

Quando cominciai a scrivere questo libro non sapevo esattamente che forma avrebbe preso. Mi trovavo dunque in una posizione di notevole vantaggio perché ero costretto a improvvisare (…). Ben presto mi accorsi infatti di essermi allontanato da qualsiasi tipo di critica convenzionale. A mano a mano che inventavo dialoghi e azioni capivo di avvicinarmi sempre di più al racconto.[1]

Foto tratta da Unsplash

I nove mostri sacri su cui Geoff Dyer costruisce i suoi racconti, e attorno ai quali ruotano svariati altri musicisti più o meno importanti, sono Lester Young, Thelonious Monk, Bud Powell, Ben Webster, Charles Mingus, Chet Baker, Duke Ellington e Art Pepper. Non penso di osare troppo nel dire che, in un certo senso, Dyer rimodella il concetto di narrazione biografica soprattutto attraverso la sua capacità di immedesimazione nelle vite altrui, mescolando in maniera coerente e credibile realtà e finzione.

Lei guardò il suo volto reso spugnoso dal bere, e si domandò se le loro vite non avessero contenuto in sé il germe della rovina fin dalla nascita, una rovina di cui si erano presi gioco fin dalla nascita, una rovina di cui si erano presi gioco per qualche anno, ma che in realtà non avrebbero mai potuto eludere. Alcol, roba, prigione. Non è che i jazzisti muoiano giovani, è che invecchiano più in fretta. Aveva vissuto mille anni nelle canzoni che aveva cantato. Canzoni di donne ferite e dei loro uomini.[2]

Nel racconto The President ecco un esempio dello stile e della costruzione delle storie. L’incontro tra Lester Young e Billie Holiday, che si conoscevano realmente (fu proprio lei a dargli il soprannome The President), è lo spunto per una riflessione sulla rassegnazione per la direzione presa dalle rispettive vite, forse fin dalla nascita destinate ad essere così. Qualcosa che il jazz aveva aiutato a far venire fuori, lei con la sua voce e lui col proprio strumento.

Alcol e droghe sono stati fattori comuni di un gran numero di jazzisti importanti, praticamente tutti quelli di questa raccolta. Le conseguenze sono state a volte il carcere e a volte anche le cliniche psichiatriche. Tante morti premature, certo, ma più che altro un consumare se stessi ad una velocità impressionante. Come ci fa notare Geoff Dyer nell’altrettanto ricca postfazione, i musicisti erano continuamente sotto pressione e al lavoro, proprio perché composizione, jam session e concerti erano fluidi che si mescolavano continuamente, diventando una cosa sola, serata dopo serata. Il jazzista, oltre che artista, era anche un mestierante che si ritrovava a suonare spesso con band sempre diverse, mettendosi in viaggio dopo ogni concerto. Non poteva concedersi il lusso di aspettare l’ispirazione per suonare.

E proprio come i musicisti, Geoff Dyer è davvero attento alla dinamica delle sue storie, modulando il tocco e l’intensità della sua scrittura, nell’alternanza tra gli episodi di vita quotidiana e i momenti in cui i protagonisti si legano e si fondono con il proprio strumento. Amante anche della fotografia, alla quale ha dedicato vari scritti, Dyer sostiene che proprio il jazz sia stato uno dei massimi beneficiari dell’arte fotografica, perché in grado di cogliere tanto l’estetica della frenesia sul palco quanto la calma, talvolta la malinconia, nascoste sui volti dei musicisti nei momenti di attesa nei camerini o durante la composizione di nuovi pezzi.

Una delle caratteristiche migliori di Geoff Dyer è però la sua capacità di vedere spiragli in qualsiasi altra forma d’arte oltre alla scrittura, sfruttando qualsiasi particolare per attaccarci una storia, costruendoci un racconto.
Ed è anche partendo dalle immagini, oltre che da aneddoti ed episodi raccolti nelle varie biografie ufficiali o libri sulla storia del genere, che Dyer alimenta la propria immaginazione. La narrativa prende così le sembianze del jazz in cui, parafrasando l’autore stesso, il rapporto sfuggente tra composizione e improvvisazione continua a permettergli di autogenerarsi continuamente. Parte da un punto fermo, statico, come una foto appunto, per poi aprire completamente la scena dandole movimento, immaginando l’azione dei corpi e le loro parole. Anche gli oggetti prendono vita attraverso i dettagli, così come i tanti flussi di pensieri. Ecco come descrive Thelonious Monk, che le cose preferiva suonarle con quella sua fisicità unica, più che dirle:

Suonava con le mani spalancate, appiattite sui tasti, le punte delle dita quasi rivolte all’insù anziché piegate a martello. […] Non gli piaceva uscire dal suo appartamento, e le parole non ne volevano sapere di uscirgli di bocca. Invece di venirgli fuori dalle labbra, gli ritornavano in gola, come un’onda che rotolasse all’indietro verso il mare aperto anziché infrangersi sulla spiaggia. In musica non faceva concessioni, aspettava solo che il mondo capisse il suo lavoro, e con il linguaggio era la stessa cosa: aspettava che la gente imparasse a decifrare i suoi grugniti e i suoi ugolii modulati.[3]

Con una metafora bellissima ci fa capire immediatamente il soggetto, la sua attitudine nella musica e nella vita.
Non servono date di nascita, o di concerti o incisioni di dischi. Non c’è nulla di cronologico, ma solo a volte nomi di canzoni o di artisti da cui ciascun protagonista è stato ispirato, oppure con i quali ha suonato. La sostanza di queste storie è l’amore assoluto per questo genere di musica, perché per loro è la cosa più importante di tutte, l’unica a cui attaccarsi davvero, fino entrarci dentro, perché semplicemente non sembra esserci altra soluzione o via di fuga, come ci suggerisce Monk:

Vedi, il jazz ha sempre avuto questa cosa, il fatto che tutti si dovesse avere il proprio sound; per questo c’è un sacco di gente che magari non ce l’avrebbe fatta nelle altre arti: gli avrebbero appiattito le loro idiosincrasie, per così dire […] E così c’è un mucchio di gente nel jazz che la sua storia e i suoi pensieri sono diversi da quelli di tutti gli altri, tantoché senza il jazz loro non avrebbero mai avuto nessuna possibilità di tirare fuori tutte le loro idee e tutta merda che avevano dentro. Ragazzi che in qualsiasi altra professione – come banchieri o anche idraulici – non ce l’avrebbero mai fatta: con il jazz potevano essere dei geni, senza sarebbero stati niente.[4]

Foto tratta da Unsplash

Leggendo i suoi racconti, ho avuto anche un po’ l’impressione che non si possa mai davvero raggiungere la profondità di quest’arte, in cui l’improvvisazione di uno o più elementi può cambiare continuamente la posta in gioco durante un concerto, in cui cogliere l’istante è fondamentale per capirsi vicendevolmente nei guizzi e nelle intuizioni, quella sensazione di immersione fisica e mentale così totale. E non è una questione di qualità, di perdersi qualcosa a livello qualitativo, ma è soltanto che il solo ascoltare forse vuole anche dire in qualche modo non esserci dentro per davvero. Dannie Richmond, all’epoca giovanissimo batterista, racconta questo tipo di esperienza suonando con il poco accomodante Charles Mingus:

Stando con lui c’erano delle volte in cui eri terrorizzato, ma c’erano anche le volte quando suonavi con un’esaltazione che non potevi provare altrove, quando ci sentivamo, più che una band, un branco lanciato alla carica sotto le urla e gli insulti di Mingus che si trasformavano in grida di incoraggiamento.
“Dai che ci siamo, dai che ci siamo, dai che ci siamo”.
La sua voce schioccava come la frusta sulla groppa dei cavalli: “Yah, yah, yah”.[5]

La necessità di dover suonare spesso, in qualsiasi luogo e locale e con qualsiasi band con la quale non si era mai suonato prima, in orchestre più o meno numerose, unita alla necessità artistica di distaccarsi dai propri maestri per dare vita al proprio sound diversificando gli stili, hanno creato le condizioni ideali per una continua freschezza e rinascita del genere.

Composizioni originali che diventano degli standard (in quale altro sistema comunicativo può accadere che un grande classico sia preso a modello, da adottare e adattare a proprio piacimento?). Provate a pensare a Tolstoj in una collana di stereotipi letterari.[6]

Quello che le storie di Natura morta con custodia di jazz ci dicono è quanto in realtà il jazz sia stato popolare e presente ovunque in tutto il Novecento, benché oggi sia forse considerato un ascolto per orecchie “colte”, sempre che questo genere di cose abbiano un senso (e mai come nella musica non ce l’hanno). Genere che ha letteralmente sfondato, sbriciolato le barriere razziali, scavalcando anche la censura dei regimi di destra e di sinistra che hanno provato ad ostacolarne la diffusione e che, nonostante abbia in moltissimi musicisti neri le proprie punte di diamante, ha subìto, inglobato ed elaborato qualsiasi tipo di contaminazione, contaminando a sua volta altri generi, in un’evoluzione e cambiamento continui, con buona pace di tutti quei puristi che forse lo preferirebbero come intoccabile e immobile nel suo essere considerato ascolto esclusivo.

Non a caso, Geoff Dyer cita lo storico Eric Hobsbawm che nel suo libro Storia sociale del jazz, scriveva: «il jazz ha avuto il privilegio di reclutare le proprie forze in una riserva di potenziale umano molto più vasta di qualsiasi altra forma d’arte del nostro tempo».[7]


[1] Geoff Dyer, “Prefazione”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[2] Geoff Dyer, “The President”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[3] Geoff Dyer, “Melodious Thunk”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[4] Geoff Dyer, “Melodious Thonk”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[5] Geoff Dyer, “Mingus Fingus”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[6] Geoff Dyer, “Postfazione”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[7] Geoff Dyer, “Postfazione”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013

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