
Gianni Celati è un autore che sa raccogliere certe piccole storie, specifiche di un territorio, e trasformarle in materiale per racconti universali. Come l’amico fotografo Luigi Ghirri (1943-1992), che tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta ha raccontato la pianura emiliana attraverso le fotografie di luoghi quotidiani e apparentemente marginali (fabbriche, periferie, distributori di benzina, prospettive agresti ammantate dalla nebbia) cercando di cogliere quel velo latente di meraviglia appena percepibile al di sotto del visibile quotidiano, Celati ha utilizzato la scrittura per mostrare come anche il paesaggio piatto e poco sorprendente della pianura possa contenere storie immaginifiche.
Peregrinando attraverso le pianure è facile perdere l’orientamento: in estate lo sguardo si perde nella profondità degli spazi; in inverno è spesso offuscato dalle nebbie e permette una vista di pochi metri. Quello che appare lungo la linea dell’orizzonte, in pianura, sembra sempre troppo lontano e irraggiungibile, oppure è un contorno sfumato, un’ombra. In entrambi i casi ha la qualità del miraggio. La scrittura di Celati nasce proprio da qui: dalle apparenze, dai miraggi; si nutre di una spiccata sensibilità per il paesaggio e della passione per quelle storie che hanno il sapore della diceria o della leggenda. L’operazione che compie lo scrittore è unire questi aspetti e creare una sorta di poema degli spazi sconfinati e delle persone che li abitano. Ma nel caso di Celati il risultato è un poema che non cerca l’epica: è una narrazione essenziale, popolata da personaggi ordinari, dove non c’è spazio per gli eroi.
Nel 1984, Italo Calvino presentava la raccolta di racconti Narratori delle pianure come un «libro che ha al suo centro la rappresentazione del mondo visibile, e più ancora un’accettazione interiore del paesaggio quotidiano in ciò che meno sembrerebbe stimolare l’immaginazione»[1]. Le trenta novelle raccolte nel libro, in effetti, hanno radici profonde nella realtà contemporanea e hanno come punto di partenza una geografia ben definita. Gallarate, Piacenza, Ostiglia, Ca’ Venier, Sermide, il Po, i suoi affluenti e i rami del suo delta sono alcuni esempi di luoghi reali che fanno da sfondo alle storie. La cartina posta all’inizio del libro e la dedica: «A quelli che mi hanno raccontato storie, molte delle quali sono qui trascritte»[2] sono gli strumenti con cui si manifesta il visibile. La cartina è offerta come documento del reale e la dedica sembra suffragare tale tesi, perché lo scrittore si pone nei confronti delle novelle contenute nel libro come un semplice trascrittore, indica i luoghi dove ha raccolto le storie. Di conseguenza il corpo delle novelle sembra proporsi come una serie composita di frammenti di realtà. Ma non è così. Spesso già nelle prime righe dei racconti l’immaginario penetra il reale mettendo in moto i meccanismi del surreale e del fantastico.
«In un piccolo paese in provincia di Parma, non lontano dal Po, mi è stata raccontata la storia d’un vecchio tipografo che s’era ritirato dal lavoro perché voleva finalmente scrivere un memoriale a cui pensava da tanto tempo. Il suo memoriale avrebbe dovuto trattare questo argomento: come fa il mondo ad andare avanti».[3]
In situazioni come queste il lettore prova la sensazione di trovarsi di fronte a una storia che può essere plausibile, ma quasi mai definitivamente vera. È la stessa sensazione che si prova quando si ascolta una storia di seconda mano, caricata di elementi iperbolici e al limite del possibile, o una leggenda. Potrebbe essere esistito un personaggio come il protagonista di questo racconto, ma è proprio questa la sua storia? Le novelle di Narratori delle pianure non offrono alcuna risposta a questa domanda, anzi alimentano il dubbio nel lettore. I personaggi che popolano le pianure sembrano procedere su quel filo tirato tra il mondo della realtà e quello della pura fantasia. Sono dei disincantati, dei pellegrini che vivono vicende qualche volta al limite del possibile, che vagano per il mondo in cerca di risposte, e queste gli si rivelano attraverso delle piccole epifanie. Ma queste risposte qualche volta arrivano troppo tardi, quando non si può rimediare al disastro. Allora, in tali casi, la novella assume perfino i toni della parabola (La ragazza di Sermide, Parabola per disincantati, Bambini pendolari che si sono perduti).
«Avevano fatto tanta strada venendo da lontano in cerca di qualcosa che non fosse noioso, senza mai trovar niente, e adesso per giunta chissà quanto tempo ancora avrebbero dovuto restare nella nebbia, col freddo e la malinconia, prima di poter tornare a casa dai loro genitori. Allora è venuto loro il sospetto che la vita potesse essere tutta così».[4]
Se già le prime storie mostravano avvisaglie di un surreale, procedendo nella lettura le vicende narrate hanno sempre più il sapore del fantastico quotidiano. Il viaggio del lettore procede lungo la direzione in cui scorre il Po, ma lo spostamento verso i confini estremi della pianura coincide con lo spostamento verso i limiti stessi del reale. Il racconto che conclude il libro, Giovani umani in fuga, coincide con il superamento della cartina geografica iniziale. La cartina in questo racconto non serve più a niente. I nomi dei luoghi non sono più citati, la pianura qui è uno spazio vasto e molteplice, che confonde. L’unico nome di luogo è “la sacca dei morti”, ma è un posto che, a differenza di quelli citati nelle altre novelle del libro, non esiste. La pianura di questo racconto è sede di generici accampamenti di «stranieri senza casa» e di zone militari dai limiti invalicabili; è una tana che offre riparo ai quattro giovani umani in fuga del titolo e allo stesso tempo si rivela traditrice perché mostra facilmente le tracce e la posizione agli inseguitori. I personaggi che popolano questa pianura non hanno nome, ma solo un mestiere (l’arrotino, la donna che serviva al bar) o un soprannome (Mazinga). Possono rivelarsi anch’essi traditori o amici. La realtà in questo racconto svanisce, sprofonda sotto i piedi dei personaggi. In un pantano di canali e barene, la pianura si sgretola in una miriade di isolette lagunari e si consegna al mare.
«Sempre piangendo hanno cercato di seguire sentieri che non esistevano, camminando in cerca di qualcosa tra le lagune, spesso sprofondando in buche d’acqua o in sabbie mobili. Alla sera, affamati e infreddoliti, si addormentavano piangendo e piangevano anche durante il sonno».[5]
[1] citazione di Italo Calvino tratta dalla quarta di copertina a cura di Nunzia Palmieri, Gianni Celati, “Narratori delle pianure”, Feltrinelli, 2012.
[2] Gianni Celati, “Narratori delle pianure”, Feltrinelli, 2012 (pag.7)
[3] Gianni Celati, “Come fa il mondo ad andare avanti”, in Narratori delle Pianure, Feltrinelli, 2012 (pag.50)
[4] Gianni Celati, “Bambini pendolari che si sono perduti”, in Narratori delle Pianure, Feltrinelli, 2012 (pag.25)
[5] Gianni Celati, “Giovani umani in fuga”, in Narratori delle Pianure, Feltrinelli, 2012 (pag.146)
Bella recensione, bravo! Ho apprezzato molto la raccolta di Celati. Ed anch’io soffro della malattia dell’infinito
Cordiali saluti
Marina Scaglione
Grazie Marina! 🙂