Se riesco a scrivere questo articolo è perché mi sto ancora godendo i benefici di quell’oasi felice che è stata leggere il libro di James Ellroy Un anno al vetriolo. Los Angeles Police Department, 1953, dopo mesi di deludente ricerca di qualcosa che attirasse un minimo la mia attenzione e che mi invogliasse ad avere costanza. Ero, e non è detta che sia passato, nel classico blocco del lettore. Ci sta, succede, niente drammi, ma non posso negare a me stesso come questo genere di periodi siano sempre più frequenti e lunghi. Negli ultimi mesi ho iniziato e messo via – e con messo via intendo che nella mia testa sono definitivamente bocciati – non so nemmeno più quanti libri. Inizio, leggo venti, cinquanta, a volte supero pure le cento pagine, ma mentre seguo le frasi mi sto solo chiedendo a che scopo andare avanti. Non ci credo nemmeno io che lo finirò davvero quel libro. Se questo da una parte è causa di un po’ di dispiacere, dall’altra mi sta aiutando molto nel definirmi meglio come lettore, nell’accettare il fatto che, in un mondo e in un quotidianità in cui la lettura è solo una delle possibilità di diletto e di scoperta, è giusto che io segua in maniera più diretta e sicura i miei gusti, e di conseguenza che accetti con più serenità i miei limitati orizzonti letterari.

Gira che ti rigira, io sto bene nelle storie che si ispirano alla realtà, o che sono realmente accadute se un bravo scrittore ci mette del suo per raccontarmele. Non ho nessun problema a sorbirmi la solita minestra, a patto che me la cucini uno come Ellroy. Così, Un anno al vetriolo, ovvero fotografie di criminali, vittime e poliziotti, scattate da chi al Los Angeles Police Department (LAPD) nel ‘53 ci lavorava, impreziosite dai testi di Ellroy, che racconta fatti e protagonisti, mi è sembrato l’incontro di sapori perfetto. Lo tenevo lì, in caldo per questi momenti morti, l’asso nella manica per un lettore pigro, svogliato e annoiato come me che aveva bisogno di una scossa. Torno sempre al ritmo, alla scrittura un po’ sfacciata, e questo titolo, a partire dalla copertina, è stato le certezze che cercavo, la sicurezza di divertirmi, di essere risucchiato e finalmente finire un libro.
Hola, Hermanos dannati che pensate di comprare questo libro. È come il crack, vero? Un nuovo libro di James Ellroy, il cane infernale, l’incubo della letteratura americana, il re marcio degli scrittori di Los Angeles, da tempo fedele mascotte del LAPD. […]
Un caustico viaggio a ritroso nel tempo, a un’epoca in cui la vita non valeva niente, l’amore costava quattro soldi e i ragazzi in divisa blu tenevano in pugno la città e la mantenevano in spleeeendida forma
Il libro, pubblicato dalla casa editrice Contrasto è, oltre che una raccolta di storie e notizie interessanti, un libro fotografico stupendo, come praticamente tutti quelli della collana In parole.
La realizzazione è stata curata da Glynn Martin, direttore esecutivo del Los Angeles Police Museum, avvalendosi dell’aiuto di altri volontari che si sono dedicati negli anni a raccogliere materiale e tenere viva la memoria storica di quello che è forse il dipartimento di polizia più famoso e, se non il più famoso, il più rappresentato d’America.
Per tutte le pagine, le foto selezionate dal Los Angeles Police Museum vengono accompagnate da quelle che, normalmente, sarebbero una sorta di didascalie di spiegazione o contestualizzazione e che invece, grazie alla penna di Ellroy, diventano dei brevi e spietati racconti in grado, in pochissime righe, di aprire un mondo sulla vecchia L.A., sui suoi vecchi mitici protagonisti, appartenenti a entrambe le parti della barricata: criminali e poliziotti. Buoni e cattivi. Sì, perché la posizione di Ellroy è chiara: lui, nonostante tutto, nonostante le esagerazioni e le libertà poco ortodosse che gli agenti si sono sempre presi, sta dalla loro parte.
Ellroy lo dice apertamente, nel libro e in varie interviste: è un nostalgico, ama le vecchie storie di polizia e di una città che non c’è più. Rifiuta di parlare dell’oggi, perché tutto il suo mondo si sviluppa nel passato e il suo unico scopo è scrivere grandi narrazioni che portino il lettore in un mondo che non conosce, fatto di cose come erano e che non sono più. Echi della sua infanzia, non certo modello, non certo facile, con una madre morta assassinata e gettata in un fosso a El Monte, e un padre erotomane che morirà quando James ha diciassette anni. Seguono periodi tra droga, alcol, qualche guaio con la legge, ma nel frattempo cresce la sua passione per il crime, per i polizieschi, che lo porteranno nel tempo a diventare lo scrittore osannato e celebrato che è, un uomo che vive ritirato, sempre intento a lavorare, a immaginare nuove trame, nuovi vasti e complicati intrecci per un prossimo romanzo.

Di non secondaria importanza è la stampa dell’epoca, fondamentale per seguire i casi di cronaca nera. I giornali pubblicano le foto esplicite dei cadaveri, ma la qualità è talmente bassa, un bianco e nero pixellato, che il dettaglio macabro se lo deve inventare il lettore. Tutto questo è “l’epica al neon del sabato sera”, espressione che Ellroy prende in prestito da Don Delillo.
In Un anno al vetriolo il lettore è invitato a concentrarsi su un particolare, che sia il piede di una vittima, un grattacielo, un vecchio locale o l’espressione di passanti e poliziotti sulla scena del crimine; e poi ci pensa lui, con tutta la sua bravura di narratore di storie forti, al limite, a darci tutto il resto. Perché poi va detto: qui c’è un campionario di storie pazzesche, tutte finite male. Alcune ridicolmente ed eccessivamente male, ma tutte «equamente distribuite tra razzie di classe e una follia umana che spezza il cuore»; criminali che la sfangano in maniera rocambolesca, poveri dilettanti allo sbaraglio che eseguono un piano che perfetto lo era solo nella loro testa.
Con tutto questo materiale di crimini efferati, ladri di polli e sbirri super cazzuti, lui e il suo stile ci vanno a nozze. Ellroy si gasa proprio a raccontare certe storie, e lo senti che è grato, dal profondo del cuore al LAPD.
E ci sono due storie che pure a me, lo ammetto, mi hanno gasato. Brooks, in cui vediamo, nella foto di riferimento, il detective Pierce Brooks in piedi mentre osserva della marijuana appesa alla rete di un materasso, dopo aver beccato un tizio che la coltivava. È quello sguardo a fare il racconto, perché è da quel modo di guardare l’erba che Ellroy tira fuori l‘ironia del momento: Brooks è troppo in gamba per sgominare coltivatori d’erba, vuole andare a caccia dei cattivi veri. Accadrà, diventerà una leggenda del Dipartimento, ma nel ‘53 no: è lì, davanti a una baracca con della marijuana mezza secca; ben vestito e mani in tasca, con il sorrisino di uno per niente preoccupato: «Pierce Brooks, re-filosofo del LAPD, alle prese con uno strafatto di canne. Che gli passa per la testa?».
E poi c’è Cappelli, che racconta dei quattro poliziotti che formavano la leggendaria “Squadra dei cappelli” del LAPD. Erano i duri dell’Antirapine. Forse a volte un po’ troppo duri. Per far parte della squadra dovevi essere minimo un metro e ottantacinque. Tosti e stilosi: «tendevano a non portare la pistola per non rovinare la linea del vestito» e, soprattutto, quello per cui la squadra prendeva il nome: borsalino bianco in testa. Hanno visto le peggiori situazioni, arrestato bruttissima gente, ma non hanno raccontato nulla. Come dice Ellroy, acqua in bocca, si sono portati tutto nella tomba «e ci hanno lasciati qui a interrogarci – e a sognare le loro storie».
Tipi in gamba, poliziotti che hanno scritto la storia del Dipartimento, dei pluridecorati insomma, ma non tutto filava sempre liscio. La polizia ci metteva un attimo a passare dalla parte del torto, commettendo soprusi e pestaggi. E nonostante Ellroy sia un fan sfegatato di questi uomini dalle maniere forti, non si dimentica certo di raccontarci anche l’altra faccia di Los Angeles, quella dei poliziotti fuori controllo, agenti noti anche per la loro violenza fuori posto. Ce n’è una bella sfilza nel libro.
Ed è questo uno dei motivi per cui il ‘53 è una scelta così significativa. Da tre anni, infatti, al comando del LAPD c’è William H. Parker.
William H. Parker III. Il più grande poliziotto americano del XX secolo.
Capo del LAPD: dal ‘50 al ‘66.
Riformista. Reazionario. Domatore della città. Progressista. Donnaiolo, bigotto, ubriacone.
Whiskey Bill Parker era Los Angeles nel ‘53. Un teocrate fanatico, con una violenta passione per la rigida applicazione della legge. Un avvocato brillante, pieno di talento. […]
Era un uomo severo e rigido da spezzare il cuore, con quella vita interiore grandiosa e caotica che è tipica degli alcolizzati. Rispondeva delle sue azioni soltanto a Dio, e gli mancava la terrena dote della pietà.
Parker è talmente un personaggio complesso, contraddittorio, rivoluzionario e fuori epoca allo stesso tempo, da essere quasi un cliché. Quante volte abbiamo visto nei film, nelle serie tv e nei romanzi il poliziotto con caratteristiche simili? È l’uomo di Ellroy, quello a cui dedica il ritratto più profondo e sfaccettato, è il più letterario di tutti. Ha trasformato il LAPD efficientando la lotta al crimine e denunciando, su tutti, gli abusi commessi proprio dai poliziotti. Un rivoluzionario razzista, però, che odiava il cambiamento, specialmente il cambiamento che portava il caos in città. E il caos stava arrivando, perché Los Angeles stava inesorabilmente cambiando, tanto sul piano sociale quanto su quello urbanistico.
L.A. nel ‘53 vuole ancora dire segregazione razziale, con quartieri suddivisi rigorosamente per colore della pelle, ma anche questa cosa stava cambiando per sempre. E Parker, che quel tipo di cambiamento non lo accettava, non ha saputo far altro che provare a reprimere.
Questo, e il suo indubbio razzismo, hanno gettato un’ombra davvero molto scura su tutto ciò che di buono ha fatto contro il crimine.
Sempre riferendosi agli anni sotto Parker, Ellroy sfodera forse uno dei momenti di letteratura più belli del libro.
Credo che paragonasse il suo comando del LAPD a quello di un tiranno di qualche Utopia – pur sapendo benissimo che tale Utopia è destinata ad arrivare a maturazione per poi diventare molle e finire a marcire in quella fogna in continua espansione, sovrappopolata e deturpata dai cartelloni pubblicitari che è L.A. ora.