Un giorno del 2008, tornando a casa dall’università, lessi un racconto che a suo modo cambiò la mia idea di letteratura. L’autore si chiamava Ryan Boudinot e l’antologia che lo includeva era Non vogliamo male a nessuno. I migliori racconti della rivista McSweeney’s Volume secondo 1. Titolo del racconto: Civiltà.

Ricordo ancora la sensazione di angoscia che mi prese alla fine, quando il giovane protagonista Craig uccide i genitori con un coltello per sfilettare. A rendere disturbante la scena, allora come oggi, è il fatto che nel racconto sono i genitori stessi a incitare il figlio a compiere l’atto. Un sacrificio necessario che Craig deve compiere per assolvere al suo dovere di cittadino americano e «salvare la nostra grande patria».
L’atto è necessario perché la società in cui Craig e i genitori vivono è basata sulla stretta osservazione dei comportamenti e su una concezione di sostenibilità finanziaria portata alle estreme conseguenze. Come infatti spiega il giovane che ricostruisce la vicenda a distanza di due anni dall’omicidio: «se non andavo fino in fondo con la loro esecuzione, il governo avrebbe tassato la mia famiglia fino a ridurla sul lastrico e io non avrei potuto studiare egittologia in un college di mia preferenza».
A pensarci bene, a turbarmi non fu solo la concatenazione di fatti e il dispiegarsi delle conseguenze di quell’immaginario sistema sociale ma il modo in cui Boudinot costruisce la storia. Craig all’inizio non è convinto. Non vuole uccidere le stesse persone che lo hanno messo al mondo e coperto di attenzione e di amore sin dalla nascita. Fa quindi resistenza e, come avrebbe fatto il lettore, esprime il suo disagio. Ottiene, però, null’altro che i rimproveri delle sue future vittime:
«Tutte cazzate!», urlai. «Io non voglio uccidervi! Vi voglio bene!».
«Ti prego», disse la mamma, con le labbra così serrate che se n’era andato tutto il sangue. «Siamo in un ristorante».
Mio padre indicò il bagno con un cenno del capo e disse: «Vatti a prendere un calmante, Craig. Ripresentati a questa tavola quando sarai pronto per una discussione tra persone mature sui tuoi doveri di cittadino».
Scena familiare vero? È un dialogo perfettamente verosimile, come ne avvengono tanti tra genitori e figli. Tranne per il fatto che i genitori normalmente non spingono i figli a commettere omicidi per difendere la patria.
È una “normalità” surreale che Boudinot, attraverso il racconto di Craig, porta fino alla fine, quando il protagonista, superando di colpo il disagio, assolve con successo al suo compito spiazzando il lettore che fino a quel momento aveva empatizzato con lui. Craig diventa un cittadino modello e il sistema sociale al quale appartiene, logico e cieco, può continuare a perpetrarsi. Al lettore resta uno schiaffo in faccia, un brusco risveglio.
L’aspetto più spaventoso non è l’omicidio in sé, ma la cieca adesione a una realtà costruita. Il modo in cui si percepisce cosa è normale, accettabile, e cosa non lo è. Il modo in cui si decide che una cosa è buona e giusta perché sembra logica. Tutto fila, tutto si regge, eppure allo stesso tempo tutto è tragicamente relativo. Non è un caso che nelle storie di Boudinot non ci sia scavo psicologico: i personaggi sono marionette, bambini e uomini che non si fanno troppe domande ma agiscono in una precisa realtà e pensano in maniera coerente.
E non è nemmeno un caso che all’interno del racconto si citi il Libro che aleggia come un fantasma tra le righe: 1984. Il rimando, però, non è esattamente ciò che ci si aspetterebbe. A parlare è Tisha, l’ufficiale di servizio incaricata di portare Craig nella stanza in cui deve uccidere i genitori.
«L’avrai letto 1984», disse voltando a destra. «Be’, comunque, alla gente forse un po’ nervosa io gli dico di pensare a quella parte in cui Winston Smith butta giù la porta dei vicini a calci e li becca che fumano crack. E poi si volta verso la telecamera nascosta e dice: “È ora di scatenare la bestia, che ne dici, Big Bro?” e a quel punto manda in fumo quei luridi hippy con la sua Glock! Lo so, stai pensando: che c’entra questa storia con me e i miei e il cimitero dove li manderò a breve? Quello che voglio dire è: nel giro di poco tempo ti troverai ad avere una genuina e americanissima autorità morale se sguinzagli la tua bestia e fai il culo a mamma e papà in nome delle nostre libertà eterosessuali».
Bingo! C’è tutto. 1984 letto dal punto di vista dei cattivi. Il trionfo di Big Bro, del falso protagonismo che si autoalimenta e delle false sicurezze.
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Più di dieci anni dopo aver letto Civiltà (Civilization), ho recuperato la raccolta originale: The Littlest Hitler 2, libro non tradotto in italiano che nel 2006 fu “Book of the Year” per il Publishers Weekly. Ho scoperto che non mi ero sbagliata, che anche le altre dodici storie si muovono nello stesso solco e soprattutto che Ryan Boudinot è un personaggio curioso dal background molto interessante per uno storyteller. Uno con il quale berrei volentieri un cappuccino.

Scorrendo il suo blog, si scopre che ha scritto due romanzi (uno dei quali nominato per il Philip K. Dick Award e uno finalista al PEN USA Literary Award) e una raccolta di saggi sulle tecnologie emergenti e sulle economie creative. Nella vita ha fatto il reporter, il gelataio, ha insegnato nelle scuole di scrittura e ha criticato (aspramente) le scuole di scrittura. Ha venduto libri, lavato piatti nel ristorante del cugino di Kurt Vonnegut, ma soprattutto ha lavorato per Amazon, quando Amazon vendeva solo libri, e per due decenni ha collaborato per startup, dotcom e compagnie Big Tech, comprese Expedia, Netflix e Microsoft. Nel 2013 ha fondato il Seattle City of Literature, una organizzazione nonprofit che ha permesso di includere Seattle (la città di Ryan e di Amazon) nella lista delle Città Creative dell’UNESCO. Ha inoltre avviato una attività di consulenza sulle tecnologie immersive e nel tempo libero organizza “silent parties”, sedute di lettura muta in cui i partecipanti si ritrovano semplicemente per leggere insieme, ognuno il proprio libro. Tipo curioso il nostro Ryan, non c’è che dire. Uno che è stato definito così da Dave Eggers (la mente di McSweeney’s): «some kind of new and dangerous cross between Vonnegut and Barthelme».
Tornando a Littlest Hiteler, va detto che il racconto che dà il nome alla raccolta è forse il più innocuo di tutti. Il protagonista è un bambino che decide di vestirsi da Hitler per Halloween e che finisce per incontrare in classe una ragazzina vestita da Anna Frank. Non vi dico come finisce.
A catturare l’attenzione, visto il background digitale di Ryan, è però Written by Machines, un racconto in cui un giovane e brillante programmatore si ritrova a fare i conti con una imperfezione del programma di cui è responsabile: l’incontrollata produzione di poesia generata in maniera autonoma dall’intelligenza artificiale.
Quelle frasi nate dal nulla, senza un’istruzione e senza comando eppure così “significanti”, sono forse la cosa più suggestiva e umana su cui il lettore degli anni Duemila può riflettere. Un pensiero sublime e spaventoso che spiana la strada a una serie di domande cui forse il più blasonato collega di Boudinot, Ian McEwan, ha tentato di rispondere con il recente Macchine come me: cosa ne sarà dell’arte, della poesia e della scrittura di storie nell’era dell’intelligenza artificiale? Continueranno ad essere necessarie, a ripresentarsi come una richiesta inevitabile dello spirito umano o svaniranno frammentandosi in una casuale ridondanza negli spazi lasciati liberi da un programma?
Noi non lo sappiamo, e nessuno lo sa. Ma intanto continuiamo a leggere. Pare sia un antidoto efficace contro i falsi valori e le false sicurezze.