Leggere Quiroga, significa leggere racconti. Ne ha scritti più di cento pubblicandoli su riviste di ogni genere, non solo letterarie. Tra queste, senz’altro la più famosa è Caras y caretas, un settimanale di satira politica e di attualità, fondato nel 1890 a Montevideo, che avrà Quiroga tra i suoi collaboratori a partire dal 1905 e per i successivi ventidue anni. La rivista, in formato digitale, esiste tuttora.

Leggere Quiroga equivale a conoscere il padre del racconto ispano-americano moderno. Nei suoi racconti migliori sfoggia uno stile che potremmo definire gotico ma, al posto dei castelli diroccati, degli intrighi, delle fughe e degli amori contrastati, tipici dei racconti di questo genere pubblicati in Europa nel XVIII secolo, lui ambienta le sue storie più cupe e tenebrose nella selva misionera, quella che si estende tra l’Argentina, il Brasile e il Paraguay, quella delle Cascate di Iguazù – uno dei posti più belli e suggestivi al mondo -, quella dove è stato girato il film Mission nel 1986 con la colonna sonora di Ennio Morricone, quella dove gli istinti più ancestrali si esprimono senza ritegno: paura, orrore, ferocia.
Tradurre Quiroga, invece, significa rendere giustizia a un autore molto conosciuto nei paesi latinoamericani ma decisamente poco letto e poco noto in Europa, e forse anche nel resto del mondo.
Tradurre Quiroga richiede uno sforzo relativo perché, fortunatamente, il suo stile è lineare e diretto – asciutto, come direbbero i recensori contemporanei – privo di pomposità, ridondanze, eccessi retorici e linguaggio erudito. Uno dei suoi racconti più famosi, La gallina degollada1, è un esempio di tutto questo: due storie parallele confluiscono in un tragico epilogo, una trama costruita senza sperpero di parole, che va dritta al punto, senza concedere sconti emotivi al lettore.
Imparare da Quiroga significa, provare a scrivere applicando le regole del suo ‘Decalogo del perfetto scrittore di racconti’2, dieci regole che sembrano altrettanti precetti. Quiroga, rivolgendosi a un immaginario scrittore di racconti, ma più verosimilmente a se stesso, si esprime più o meno così:
1. credi in un maestro come se fosse il tuo stesso Dio
2. affronta la sua arte come una cima da scalare, ma non pretendere di conquistarla, prima o poi ci ce la farai
3. cerca di non imitarlo, a meno che non sia proprio inevitabile; la personalità di uno scrittore richiede pazienza
4. ama l’arte con tutto il cuore
5. non iniziare a scrivere se non conosci la fine della storia, in ogni racconto che si rispetti le prime tre righe sono importanti quanto le ultime tre
6. non sprecare le parole
7. evita aggettivi superflui, usa solo quelli necessari
8. prendi per mano i tuoi personaggi e portali dritti verso il finale, non ti distrarre e non abusare del lettore
9. non scrivere sotto l’influsso delle emozioni, lasciale decantare e dopo cerca di ricrearle, se ci riuscirai sarai a metà dell’opera
10. non pensare ai tuoi amici mentre scrivi, pensa solo a ciò che è davvero utile alla trama e ai personaggi della tua storia
Imparare da Quiroga vuol dire avere, ancora una volta, la conferma che amore e morte, ragione e follia, dolore e felicità sono due facce della stessa medaglia e che la vita in sé è del tutto precaria, una sorta di continuo e costante memento mori.
Imparare da Quiroga equivale ad abbandonare l’idea di una Natura benevola, poiché più che Madre talvolta è Matrigna: segue il suo corso e non ha a cuore la felicità o infelicità dell’uomo, una concezione molto vicina al pessimismo cosmico di leopardiana memoria.
Imparare da Quiroga significa accantonare quell’idea, un po’ romantica, dello scrittore che riesce a vivere solo della sua penna raggiungendo anche il successo; è più veritiero il contrario: che lo si diventi pur svolgendo contemporaneamente i lavori più disparati, come accadde a lui che fu anche fotografo, insegnante, piccolo imprenditore, giudice di pace, ufficiale di stato civile e console onorario in varie fasi della sua vita. Il successo arrivò postumo.
Infine, il segreto di Quiroga: poco spazio a disposizione, 1250 parole, una «brevisima cárcel de hierro»3:
«Todo lo que tenìa el cuentista para caracterizar a sus personajes, colocarlos en ambiente, arrancar al lector de su desgano habitual, interesarlo, impresionarlo y sacudirlo, era una sola y estrecha página de la revista. Mejor aún, 1250 palabras. El que estas lineas escribe» escribe Quiroga «debe a Luis Pardo el destrozo de muchos cuentos por falta de extensión, pero le debe también en gran parte el mérito de los que han restistido»4
- Racconto che ho tradotto per la nostra collana “Rigenerati”
- La versione integrale in italiano la trovate sul sito di Edizioni Sur
- Ovvero, una gabbia di ferro. Scrive Pedro Orgambide in Horacio Quiroga. El hombre y su obra (1954), Editorial Stilcograf: «Quiroga, a pesar de calificar tal espacio de “brevísima cárcel de hierro”, decía que tal procedimiento servía de aprendizaje a los jóvenes escritores.»
- Ricardo Piglia, La Argentina en pedazos. (1993), Ed. De La Urraca, «Tutto ciò che lo scrittore di racconti aveva a disposizione per caratterizzare i suoi personaggi, creare la loro ambientazione, strappare il lettore dalla sua abituale riluttanza, coinvolgerlo, impressionarlo e scuoterlo, era una stretta e unica pagina della rivista. Meglio ancora, 1250 parole. L’autore di queste righe» scrive Quiroga «deve a Luis Pardo la distruzione di molti dei suoi racconti per mancanza di spazio, ma gli riconosce anche il merito per tutti quelli che sono sopravvissuti.»