La notte dei pesci (e tutto quello che ci attraversa)

Texas, deserto

Di Mariano Macale

Nel suo Diario bizantino, la poetessa Cristina Campo (alias Vittoria Guerrini) scriveva, lapidaria: «Due mondi – e io vengo dall’altro».

Sono sempre stato personalmente convinto (Lavoisier forse sarà clemente se parafraserò il suo postulato fondamentale) che in letteratura “nulla è separato, ma si connette”, in un ciclo perpetuo di idee, nomi, cose, quasi che potessimo leggere costantemente e sempre lo stesso libro. D’altronde già il commediografo Publio Terenzio Afro ebbe a dire: Nullum est jam dictum, quod non dictum sit prius.

Quando, svariati anni fa (era il 2009), mi stavo dirigendo alla Sapienza per una lezione, deviai con piacere verso un’altra facoltà, quella di Lettere e Filosofia, dove, mi era stato riferito la mattina stessa, un tale, uno scrittore venuto dal Texas, Joe R. Lansdale, avrebbe tenuto un incontro con gli studenti.

Devo essere sincero: non sapevo chi fosse e cosa scrivesse. Passai in libreria, comprai al volo una sua antologia di racconti (non uno dei romanzi cui comunque deve gran parte della sua celebrità) dal titolo Maneggiare con cura (Fanucci Editore). Sono sempre stato convinto che un racconto dica più di uno scrittore di quanto possa dire un romanzo, per certi versi.

Quella mattina Lansdale raccontò del Texas, di come compendiasse la sua passione per le arti marziali (ha creato anche un suo stile personale, il Maverick Kenpo) con l’arte altrettanto combattiva della parola scritta. Parlò del padre che aveva vissuto la Grande Depressione, e della sua madre lettrice che gli aveva trasmesso l’amore per Mark Twain. Soprattutto, disse una cosa che mi colpì che appuntai, cioè che in Texas molte persone si narravano le storie: c’era una buona tradizione orale.

E forse deriva anche da questo la coloritura della sua scrittura, il suo “parlare per immagini” tale che la trasposizione cinematografica di alcune sue opere è risultata quasi naturale (l’ultimo lavoro è proprio una serie TV, Hap and Leonard, ispirata ai due personaggi frutto della sua penna e alle loro storie).

Ma di Maneggiare con cura, ricordo (e rileggo) avidamente soprattutto un racconto La notte dei pesci. Una perla che quasi si distingue dagli altri brani, pure pregevoli e che, se letta isolatamente, non dà indice della scrittura di Lansdale, approssimativamente associata all’etichetta di letteratura pulp o al genere horror.

Trovo che queste siano classificazioni a posteriori e, per capire davvero Lansdale, non bisogna rifarsi ad altro che a quell’arcaica esigenza di narrare, di trasmettere oralmente un fatto, vero o immaginato che sia, che appartenga a questo mondo o a quell’altro: la letteratura riunifica la cesura degli eventi, il bivio delle scelte, fornisce una chiave di mezzo.

Ed è quello che avviene anche ne La notte dei pesci: c’è un vecchio e, quasi di conseguenza, necessariamente un giovane. Il primo è un piazzista porta a porta, che non fa soldi e che è stanco di vedere «nient’altro che una città dopo l’altra, un motel dopo l’altro, una casa dopo l’altra, a guardare attraverso le porte con la zanzariera la gente che fa di no con la testa». Il giovane è un universitario, uno che sbarca il lunario aiutando solo per un’estate il vecchio nel suo lavoro di venditore di apriscatole porta a porta.

Già dalla terza pagina si avverte un senso apocalittico: «I giorni del rappresentante porta a porta sono finiti, figlio mio». E il senso della fine imminente, di qualcosa che sta per volgere, è anche nell’incipit «Era un pomeriggio bianco come un osso», ma anche nella cravatta del giovane «sciolta, come un serpente domestico morto nel sonno».

Si ritrovano entrambi nel deserto, la Plymouth in panne su una strada secondaria, distante dalla statale principale. E allora il vecchio inizia a raccontare. Dice: «Ho dei ricordi, lì fuori… e mi vengono ancora a trovare». E in questi ricordi, lui narra di molti anni prima, in una notte come questa, nello stesso posto, una macchina in panne.

Aveva preso a camminare e d’un tratto «sono usciti fuori i pesci. Nuotavano nella luce delle stelle, così belli, così naturali… di tutti i colori dell’arcobaleno».

È la notte dei pesci: un’antica leggenda indiana dei Navajo narra che tutte le cose possiedono uno spirito, il manitù. E così i pesci vengono fuori dal passato, come fantasmi, perché in altri eoni di tempo, ere geologiche prima, quel deserto era stato un oceano, e i fantasmi degli esseri che lo popolavano, al momento giusto, uscivano fuori.

I giovani sono fatti per dubitare: in fondo anche in Hemingway è il vecchio che va fino in fondo. Arriva la notte e arrivano anche i pesci, fantasmi di ogni genere e colore e dimensione, che attraversano il cielo, il deserto, i loro stessi corpi nella Plymouth, e il vecchio sveglia il giovane e ha come un’illuminazione.

Dice che i pesci sono puri, che lui appartiene a quel mondo (come nei versi di Cristina Campo), che se i pesci hanno fatto tutta quella strada, dal passato al futuro, allora forse si può andare nel passato.

«Questo non è il mio mondo. Io sono di quell’altro mondo. Voglio nuotare libero nel ventre del mare, lontano dagli apriscatole e dalle automobili…». E, davanti agli occhi del giovane, si denuda di tutte le bardature della civiltà (i vestiti, la dentiera) e balza in alto come una lepre e…

E non svelerò il finale.

Perché i finali, in un racconto prezioso come questo, sono la parte più delicata, da maneggiare con cura.


Mariano Macale ha pubblicato Rudimenti per biografie casuali sul quarto numero di Tre racconti. Per leggerlo, puoi scaricare il Pdf oppure sfogliare la rivista.

131 Condivisioni

Dì la tua!