Il 2018 volge al termine: tempo di bilanci e di somme da tirare, tempo di controllare quanti dei buoni propositi dello scorso capodanno sono stati effettivamente spuntati dalla lista, e per ogni vero lettore tempo di dare uno sguardo all’anno passato e vedere quali sono i titoli che più ci sono rimasti nel cuore. Non importa che sia sulla Moleskine provata da un anno di utilizzo o sui freddi ma puntualissimi elenchi digitali di siti come Goodreads o Anobii: il lettore in questi giorni è alle prese con una lista più o meno lunga di titoli tra cui selezionare i propri favoriti.

Per me è stato più o meno così almeno (l’anno è iniziato sotto ottimi auspici, con i racconti di Boris Vian, e proseguito altrettanto bene devo dire, con un sacco di letture di buon livello e poche brutte sorprese), complici le Instagram stories degli influencer di turno (bookstagrammer è un termine davvero troppo brutto per essere usato) e qualche post sui gruppi di lettura che frequento abitualmente. E le mie somme le avevo più o meno tirate, scegliendo i titoli più belli tra quelli letti quest’anno e condividendoli con quel malcelato compiacimento del lettore che condivide la propria passione con altri lettori.
Poi è successa una cosa. Cioè che Edizioni Sur ha ripubblicato tutti i racconti di Grace Paley, assenti da un po’ dagli scaffali delle librerie italiane. Ed è successo pure che questo libro si sia decisamente imposto tra le letture dell’anno guadagnandosi una delle prime posizioni tra quelle più amate.
Quello che state leggendo è l’articolo in cui provo a raccontarvi perché.
Grace Paley, autrice americana devota alla nostra forma di narrazione preferita, ovvero quella delle short stories, ha una storia e una personalità interessante quasi quanto i suoi racconti. Figlia di immigrati ebrei di origine ucraina e con una vita dedicata all’attivismo politico e spesa a contatto con quelle fasce più deboli della società americana tanto care a romanzieri, registi e musicisti di vario genere. Tutti elementi che confluiscono nelle storie della Paley, ambientate quasi esclusivamente nella città di New York e davvero meravigliose.
Il libro è diviso in tre raccolte: Piccoli contrattempi del vivere (1959), Enormi cambiamenti all’ultimo minuto (1974) e Quello stesso giorno (1985) e introdotto da un’interessantissima prefazione di George Saunders. E proprio a Saunders voglio ricollegarmi, perché scrivendo di una delle caratteristiche distintive della scrittura di Grace Paley parla anche della principale cosa che noi di Tre racconti cerchiamo quando selezioniamo i nostri esordienti: la voce.
Potremmo stare qui un bel po’ a discutere su cosa si intenda di preciso per “voce” (la nostra capa, Maria, ha un sacco di idee a riguardo), Saunders la definisce così:
La principale qualità della prosa letteraria – ossia la cosa che le riesce meglio rispetto a qualunque altra forma d’espressione (i film, le canzoni, la scultura, i tweet, la tv, fate voi) – è la voce. Un grande scrittore che imita, sulla pagina, l’energia dinamica del pensiero umano è quanto di più vicino a un modello di pura empatia.
Grace Paley appartiene ai grandi scrittori di voce del secolo scorso.[1]

La voce dei racconti di Grace Paley è la voce di New York. La voce dei suoi cittadini più deboli e emarginati, di donne e di uomini che con fatica cercano di barcamenarsi nella quotidiana fatica del vivere. Ma assieme alla voce dei suoi personaggi risuona, chiara e squillante, la voce dell’autrice, che ha uno stile aggraziato, complesso senza essere complicato, divertente senza scadere nel ridicolo. Assolutamente un piacere per il lettore.
«Raccontami tutto quanto, Virginia: è l’unico modo di uccidere il dolore».
Nel complesso fui lieta di accontentarlo. Ma non riuscii a tornare su certi commenti crudeli. Era come provare a rientrare nella bocca asciutta di un incubo, rammentarmi che l’ultimo giorno in cui ero stata felice era stato a metà di una settimana di marzo, quando avevo detto a mio marito che aspettavo Linda. Barbara aveva cinque mesi appena fatti. I maschietti avevano tre e quattro anni. Ma dovevo dirglielo. Era stato l’ultimo giorno con dentro qualcosa di bello.[2]
C’è tanta tristezza in questi racconti, ma alla malinconia non è permesso di prevalere. Lo spirito delle persone, dei protagonisti, trova sempre il sistema di risollevarsi in qualche modo, con un’accettazione un po’ fatalistica dell’andamento delle cose e di come funziona il mondo. Che poi è quello che la maggior parte delle persone fa nella vita quotidiana ed è la forza dei racconti di Grace Paley: aver saputo ritrarre alla perfezione lo spirito dell’uomo medio. È così ad esempio, che un uomo di mezz’età si rivolge ad una ragazzina indecisa sul proprio futuro:
«Secondo te cosa dovrei fare?».
Le diedi una risposta seria, una perla di saggezza. «Tanto per cominciare, non farti spingere dagli altri. Chi credono di prendere in giro? La gente non lo capirebbe neanche pensandoci mille anni, cosa vuole essere nella vita. In genere diventa qualcosa e basta.»[3]
Se la voce e lo stile rimangono per tutto il libro uniformi, leggendo si può notare una chiara progressione nelle tematiche dei racconti, che con il passare degli anni (e soprattutto nell’ultima raccolta) si fanno sempre più sensibili nei confronti dei movimenti politici vicini alla sinistra radicale, che per quanto con maggiore difficoltà che da noi, anche in America ebbero sviluppo e risonanza e che hanno visto Grace Paley in prima linea in tantissime battaglie.

In un racconto come Racconta Zagrowski, uno degli ultimi, l’autrice costruisce un mosaico di incastri mettendo insieme tre generazioni di americani e le loro rispettive visoni e prospettive sul mondo. Il protagonista è un vecchio commerciante ebreo, noto per le tendenze estremamente conservatrici, se non proprio apertamente razziste, che dialoga con Faith, protagonista di diversi racconti della raccolta, donna emancipata e socialmente impegnata (e un po’ alter ego dell’autrice) che in gioventù ha preso parte a picchetti davanti al negozio di “Iz” Zagrowski. La scena si svolge in un parco e ha come testimone il piccolo nipote del protagonista, che è nero e frutto di un rapporto occasionale della figlia col giardiniere della casa di cura dove è ricoverata per disturbi psichiatrici. Il racconto ha la forma di un dialogo e di una confessione, tra Iz e Faith, ma sopratutto tra Iz e se stesso.
Mi posa una mano su un ginocchio. Io la guardo. Forse è solo andata di cervello. Forse pensa che sono un vecchio e basta. (Ci sono quasi.) Be’, l’ho già detto. Ringrazio Dio che ci ha dato la testa. Dentro la testa è l’unico posto dove resti giovane quando l’altro posto si consuma. Per qualche motivo mi dà un bacio su una guancia. Che tipa strana.[4]
Riassumere non fa bene all’arte del racconto, ma quello che mi ha colpito di questo, e in generale di tutto il libro, è la capacità di descrivere con accuratezza la realtà, dimostrando che stare dalla parte della ragione spesso non è questione di bianco o di nero, ma una complessa sfumatura di colori diversi. Con non poca maestria Grace Paley è capace di combinare il linguaggio dei suoi personaggi, il linguaggio della strada, con la sua voce di narratrice, che arriva in certi momenti a toccare punte di lirismo altissime.
Letty prese a divincolarsi dall’abbraccio di Ruth. Mamma, strillò, la nonna mi strizza. Ma Ruth pensava che avrebbe fatto meglio a stringerla ancora di più, perché, anche se nessun altro pareva averlo notato… Letty, dalle gote più rosee e tenere che mai, stava cadendo, stava già cadendo, cadeva fuori dall’amaca nuova di zecca delle parole che inventano il mondo e sarebbe andata a sbattere sulla dura superficie del tempo fatto dall’uomo.[5]
Questi e tanti altri i temi che sono presenti in questo viaggio che mostra uno spaccato dell’America dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta. Ma che è ricco di spunti di riflessione attualissimi anche per l’uomo di oggi. Grace Paley con la sua penna si è guadagnata di diritto un posto tra i grandi scrittori contemporanei e un più modesto posto tra i miei autori preferiti. Tra i buoni propositi per il prossimo anno c’è sicuramente quello di approfondire la sua produzione poetica, che a quanto leggo in giro è valida quanto quella letteraria.

E voi amici lettori? Avete già tirato le somme per l’anno trascorso? E la lista dei buoni propositi (rigorosamente letterari) per l’anno prossimo a che punto sta, invece? Fatemelo sapere nei commenti, perché la mia scimmia libresca è sempre curiosissima e in cerca di nuovi spunti e nuove voglie da soddisfare.
[1] George Sauders, “La santa patrona del vedere” prefazione a “Grace Paley, Tutti i racconti”, Edizioni SUR, 2018 (p. 7).
[2] Grace Paley, “Un minimo d’interesse” in “Tutti i racconti”, Edizioni SUR, 2018 (p. 102).
[3] Grace Paley, “Un innegabile diametro” in “Tutti i racconti”, Op. Cit., (pp. 111-112).
[4] Grace Paley, “Racconta Zagrowsky” in “Tutti i racconti”, Op. Cit., (p. 479).
[5] Grace Paley, “Ruthy e Edie” in “Tutti i racconti”, Op. Cit., (p. 449-450).
Allora, coraggio, la mia lista. Letti: la quadrilogia della Oates, “Il giardino delle delizie”, “Loro”, “I ricchi”, “Il paese delle meraviglie”. Molti latinoamericani uno su tutti: “I sette pazzi” di Roberto Arlt. Gialli e fantascienza (troppi per nominarli). In lettura Leo Malet “Il mostro” e racconti distopici di Mosley, tanto per cominciare