A lezione da Kurt Vonnegut. Finali, similitudini e sano umorismo

C’è un video godibilissimo in cui Kurt Vonnegut illustra «the shapes of stories», le forme che hanno le storie che funzionano. Parlando a un pubblico conquistato dalla sua sorniona imperturbabilità, l’autore di Mattatoio n. 5 riassume l’idea già espressa diversi anni addietro in una tesi in antropologia. Una tesi che l’Università di Chicago rifiutò ritenendola troppo semplicistica e sostanzialmente priva di contenuto culturale. «It was so simple and looked like too much fun» era stato il giudizio.

A noi, invece, quella lezione torna molto utile perché fa due cose. Ci invita a non prenderci troppo sul serio (il che non guasta) e ci aiuta a visualizzare senza verbose complicazioni le possibili combinazioni dei pilastri di una storia: incipit, sviluppo e finale. Con un focus su cosa accade ai personaggi. Essi, uomini e donne qualunque a cui a un certo punto succede qualcosa, spiega Vonnegut con il gessetto in mano, attraversano degli alti e dei bassi, e questi stessi «ups and downs» distribuiti nel tempo possono essere messi in forma grafica con l’aiuto di un piano cartesiano.

Ciò che ne viene fuori è una sorta di catalogo dei modelli di storie ai quali gli autori della tradizione letteraria e cinematografica hanno attinto e continuano ad attingere per emozionare o far riflettere il lettore. Per dargli la sensazione di essere arrivati da un punto A ad un punto B e aver guadagnato qualcosa. Che sia La montagna incantata o Cenerentola.

La spiegazione e il procedimento possono far sorridere e sembrare quasi banali, eppure non fanno una piega. Sono le forme che hanno «le storie di cui la gente non si stanca mai».

Naturalmente tutte queste «forme di storie» Vonnegut le mise in pratica anche nei suoi tanti racconti. Congegni semplici ma perfetti che imparò a collaudare sin dagli esordi, quando stanco di una routine che gli stava stretta si licenziò da un sicuro lavoro da addetto alle pubbliche relazioni di una grande compagnia per abbracciare le incognite della carriera letteraria. «Dal momento che ho lasciato la General Electric, se non sono uno scrittore io non sono più nulla», scrisse all’amico Miller nel 1951.

Proprio sugli esordi di Kurt come autore di racconti, Dave Eggers fa dei ragionamenti interessanti. Tanto per cominciare, scrive nella sua introduzione a Baci da 100 dollari[1], Vonnegut è uno dei pochissimi scrittori che può permettersi una cosa che agli autori di oggi sembra un crimine: chiudere una storia con un lieto fine. O comunque con un “finale chiuso” con tanto di messaggio moraleggiante.

I finali: il Kurt “moralista” e l’Eggers fotorealista

A differenza dei «commentatori di internet» o di chi lavora in televisione, sostiene Eggers nella suddetta introduzione, gli scrittori sono persone tutto sommato schive che non hanno la pretesa di dire agli altri come vivere e non esprimono giudizi. Eppure, si chiede sempre Eggers, nella miriade di scuole e di stili in cui è avvolta la letteratura contemporanea, non potrebbe esserci qualche scrittore che a un certo punto «se ne esce fuori e ci dice “Questo è cattivo, questo è buono”?».

E continua:

Ci siamo ritirati collettivamente da ogni aspetto istruttivo del nostro lavoro. Il risultato è che i nostri racconti – parliamo qui soprattutto di racconti, visto il contesto – sono pieni di belle frasi e sfumature, ma fanno fatica, troppo spesso, a colpire.

E dopo aver chiarito che anche lui, come tutti gli autori della sua generazione, si è sempre tenuto alla larga dai «finali pulitini» dalla morale chiara, riconosce che invece

Vonnegut lo ha sempre fatto [chiudere con una morale, n.d.r.]. E, sempre di più, ciò che ha detto sembra raro e necessario. I suoi racconti hanno spesso finali che rendono abbondantemente chiaro che una lezione è stata imparata, dai personaggi (di solito) e dal lettore (sempre).

Eggers in effetti ha ragione. Kurt Vonnegut le sue storie, quelle di Baci da 100 dollari e quelle di Guarda l’uccellino[2] (l’altra raccolta degli esordi), le chiude sempre con un messaggio. Con una morale che può sorridere o meno ai personaggi. Non c’è traccia dei finali aperti tanto in voga in questo momento storico sia tra gli autori affermati che tra gli esordienti.

Continuando su questa strada, Dave Eggers aggiunge poi un altro tassello che porta diritto ai giorni nostri. I racconti di Vonnegut, riflette, funzionano come delle «trappole per topi» perché a un certo punto fanno scattare un meccanismo che porta il lettore e i personaggi dove non si sarebbero mai aspettati.

Al contrario, invece, oggi siamo nell’era del racconto fotorealista.

un naturalismo che ci dà più o meno quel che ci dà un fotografo. (…) Tutte le forme d’arte tentano la pratica di reggere lo specchio, ma la fotografia, e il racconto contemporaneo, sono mezzi particolarmente ben congegnati per lo scopo. E così il racconto breve contemporaneo ci regala personaggi che respirano, che sembrano tridimensionali, che vivono in posti reali, che hanno lavori e problemi e dolori reali. I racconti sono perlopiù al servizio di questi personaggi. I personaggi fanno mosse realistiche nelle loro vite, scelte realistiche, e il risultato è plausibile e forse persino banale».

I racconti di Vonnegut sono l’opposto. Muovono il lettore attraverso un meccanismo complesso per arrivare a un preciso scopo. Allo stesso tempo, però, i personaggi restano straordinariamente plausibili e invogliano chi legge a seguirne le sorti (o le curve sul piano cartesiano). Ci sono messaggi positivi e, qua e là, anche un po’ di tenerezza. E c’è anche una luce più chiara rispetto a quella un po’ più smorzata e cupa dei romanzi che seguiranno e sanciranno il grande successo di pubblico e critica.

Il Vonnegut esordiente che abbiamo di fronte, in sintesi, è un giovane che ha attraversato la tragedia della guerra ma che ha voglia di dire cose semplici. Ad esempio che la ricchezza materiale non è tutto, che il tempo con le persone amate è un bene prezioso, che è bene stare alla larga dagli «uomini a senso unico progettati solo per salire»[3] o che magari anche dietro un trenino giocattolo c’è una vita che aspetta di essere vissuta.

È il Kurt che spesso diceva: «Maledizione, bisogna essere gentili». E un po’ di credito a uno così, dice Eggers, possiamo anche concederlo.

Similitudini à la Piero Angela

Le forme che hanno le storie

Oltre alla questione dei finali, un’altra peculiarità dei racconti è il ricorso frequente alla similitudine. Un tratto che non stupisce se si pensa che l’obiettivo di Vonnegut non era scrivere storie raffinate ma storie che andassero incontro al lettore e alle lettrici. Racconti che non mettessero nessuno in difficoltà e che allo stesso tempo andassero bene alle riviste alle quali venivano proposti. «In mancanza di qualcosa di più allettante, resto attaccato ai soldi» scrisse sempre al solito amico Miller nella stessa lettera del 1951.

Le similitudini, in effetti, sono uno strumento efficacissimo per fare questo. Tendono una mano a chi ascolta o legge. E sono democratiche. Perché al contrario delle loro “cugine” metafore che richiedono un minimo di sforzo interpretativo, le similitudini contengono un ponte. Un piccolo come che cuce le distanze.

Lo sa benissimo Piero Angela che non a caso ha fatto proprio della similitudine un ingrediente importantissimo della sua fortunata narrazione. E ne spiega bene i vantaggi anche Stephen King nel suo On writing, pur mettendo in guardia chi scrive da un uso un po’ disattento o sciatto di questa figura retorica. «Se azzeccate [le similitudini] equivalgono a incontrare un vecchio amico in mezzo a una folla di estranei». Ma se fanno cilecca, ammonisce il creatore di IT, si arriva molto facilmente dritti al cliché: «Correre come un pazzo, bella come il sole, furbo come volpe, forte come un leone…».

Ecco qualche esempio di similitudine stile Vonnegut degli inizi:

Pur essendo molle come un gelato di vaniglia con la cioccolata calda, Larry sembrava grosso e vigoroso come un taglialegna che ha studiato al college, se esistesse, o un agente di polizia a cavallo canadese. (Goccioline d’acqua, Guarda l’uccellino).

Gli bastò udirla una volta sola per sapere che gli andava bene come la parte di sotto di un bikini di nylon elastico… (Fubar, Guarda l’uccellino)

Lo guardò con aria disgustata, come uno che avesse visto una lumachina nell’insalata. (L’epizootica, Baci da 100 dollari)

Dettagli, certo, che però nella fruizione di una storia fanno la differenza. Quando poi si aggiunge un tocco di fantasia, la similitudine ha un ulteriore vantaggio: a seconda dei casi permette di essere ironici, sarcastici o un pelino dissacranti. Una cosa che chi ha talento sa fare benissimo in pochissime parole.

Prenderla bene: un pizzico di sano umorismo

Non c’è nulla di superfluo nelle storie di Vonnegut. Anche quando sembra che stia cedendo alla tentazione del fronzolo per strizzare l’occhio ai lettori e alle lettrici, in realtà sta costruendo una cornice, sta dando una chiave di lettura.

È ciò che fa, ad esempio, nell’incipit di Confido, il primo racconto di Guarda l’uccellino. I grassetti sono miei.

L’Estate era morta pacificamente nel sonno e l’Autunno, suo mellifluo esecutore, stava mettendo la vita al sicuro finché la Primavera non fosse venuta a reclamarla. Ellen Bowers, che la mattina presto, davanti alla finestra della cucina della sua casetta, stava preparando la colazione del martedì per suo marito Henry, era perfettamente d’accordo con questa triste e dolce allegoria. Henry boccheggiava, saltellava e si schiaffeggiava qua e là sotto una doccia fredda dall’altro lato di un muro sottile.

In queste righe c’è tutto quello di cui ha bisogno un lettore per capire dove si trova e come deve prepararsi ad accogliere il resto della storia. Sono le famose coordinate sugli assi cartesiani. C’è una realtà domestica ordinaria, un idillio che prende forma come un delicato acquerello e piano piano sfuma nella realtà, che qui fa capolino con la doccia fredda e il muro sottile.

Noi capiamo subito che qualcosa sta per turbare quella che sembra una pacifica e ordinaria routine familiare. Lo intuiamo facilmente grazie alla scelta dei sostantivi e delle immagini. È il punto 8 dei “comandamenti” di Vonnegut su come scrivere una buona storia: dare al lettore più informazioni possibili prima possibile. Gli altri 7 li riassume questo articolo. 

Altrove Vonnegut dà spazio ad un umorismo più esplicito che rinuncia alle sottigliezze di registro per giocare apertamente con le situazioni. È il caso di Con la mano sull’acceleratore, il quinto racconto incluso in Baci da 100 dollari con il quale chiudiamo questo viaggio.

Questa la storia (con spoiler ma non me me vogliate).

Earl «Boccola» Harrison è un gran lavoratore appassionato di trenini e modellistica. Giocare intorno al suo plastico gli piace talmente tanto che non fa caso al tempo che scorre e resta tutto il weekend rintanato nella piccola cantina di casa con grande disappunto della giovane moglie e, soprattutto, dell’arzilla genitrice che lo richiama in continuazione. «È un tesoro davvero ma mi tratta ancora come fossi un bambino, mi fa uscire di testa. Non sono più un bambino» confida Boccola all’amico Henry mentre continua a giocare con il Vecchio Sputafuoco nella sua Earl City di plastica ignorando gli appelli della cena che arrivano “da sopra”. Le cose continuano a peggiorare e quando Earl si scorda dell’uscita programmata con la moglie l’azione passa nelle mani della vivace vecchietta che al suono di un terrificante Eeeeeeeoooowwwwrrr si palesa a sorpresa nella cantina-mondo di Earl armata di un lucente modellino di H-36. «Pilota a bombardiere. Bombardiere a pilota. Passo… Bomba atomica pronta…». Uno spaventoso Sbaang segna la fine di Earl City e spiana la strada a una pace onorevole tra i coniugi.

Lieto fine per i personaggi, divertimento per il lettore che almeno per qualche minuto, nel mio caso un buon quarto d’ora, sorriderà al pensiero di una signora matura in piedi su un plastico che sgancia bombe immaginarie sui trenini del figlio al grido di Atomicaaaa!

Special credits. L’enfasi sui finali è colpa di Johnny Depp e Stephen King. Se mai vi doveste capitare di restare soli a casa di sera, vi consiglio di non guardare il film Secret Window. Pur trattando di scrittura, racconti e finali, c’è il rischio molto alto di trascorrere la notte insonne con la luce accesa…


[1] Kurt Vonnegut, Baci da 100 dollari. Racconti inediti; Isbn Edizioni, Milano 2011. Prefazione di David Eggers, traduzione Francesco Pacifico. Pubblicata con il titolo di While mortals sleep, è una raccolta postuma.

[2] Kurt Vonnegut, Guarda l’uccellino. Racconti inediti (Look at the birdie); Feltrinelli Editore, Milano 2012. Traduzione Vincenzo Mantovani. 

[3] Citazione tratta dal racconto “L’epizootica” in Baci da 100 dollari

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4 comments

  1. Angelo D'andrea says:

    Davvero un bell’articolo su KW!!!! Ben scritto, sulla produzione “minore” di un KW che… Mi serve per quel genere di finale, prrcpp e bello chiuderlo, lasciar aperto il cancello del proprio esserci stati (da scrittori e da lettori sulla pagina) andando via, o meglio, congedandosi cortesemente. Bello lasciare dietro di sé una scia di qualche tenue domanda, non un’inquietudine o un fastidioso ricordo di reticenza … Ma e bello anche chiudere chiudere. E lasciare l’altro solo dopo aver battuto una sola volta le mani e aver detto in un attimo sospirando Beh tutto chiaro no? Finale.

    • Gaia Mutone says:

      Grazie a te per averlo letto. 🙂 Ogni tanto anche le produzioni minori sono interessanti da analizzare perché fanno riflettere su alcuni aspetti dati troppo spesso per scontati.

    • Angelo D'andrea says:

      KV naturalmente non KW … Volevo commentare subito l’articolo e qualche errore di digitazione c’è e anche un certo “ma che voleva dí”. Volevo dire grazie!! 😉 Evviva i finali dei racconti vonneguttiani!!!!

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