«Vivere è un’altra cosa». Intervista a Philip O’Ceallaigh

Photo by Owen CL

Roma, quartiere San Lorenzo. In un tardo pomeriggio di ottobre sferzato a sorpresa da un violento scirocco, incontriamo Philip O’Ceallaigh per una libera chiacchierata su Appunti da un bordello turco, raccolta con la quale ha debuttato in Italia qualche mese fa grazie all’occhio lungo della neonata Racconti Edizioni.

Irlandese di nascita e giramondo di indole, Philip O’Ceallaigh ha il suo percorso di vita e di scrittura disegnato su una cartina geografica. Per anni (classe 1968) viaggia tra Romania, Russia, Spagna, Kosovo, Georgia e Stati Uniti. Tra un lavoro e l’altro legge molto, soprattutto cose americane. Si stabilisce poi a Bucarest nel 2000 facendo una scelta di vita opposta a quella dei tanti lavoratori che invece partono proprio da lì, dall’Europa dell’Est, verso i Paesi più ricchi in cerca di fortuna.

Nei trenta minuti che trascorriamo con lui, e durante la successiva presentazione alla Libreria Giufà, capiamo diverse cose. Ad esempio che l’idea di “fare carriera” non lo hai mai interessato e che, per sua stessa ammissione, è pigro. Calmo, talvolta flemmatico, si concentra molto mentre spiega le sue ragioni e se lo si punzecchia bene esce volentieri dalla sua laconicità irlandese. Non ama le barriere (e forse non è un caso per uno che vive all’Est) e ha un debole per gli autori che coltivano una certa vena autobiografica e metaletteraria. Gli scrittori un po’ brutali, alla Bukowski; quelli che non si fanno problemi a parlare di cose noiose o a mettere a disagio il lettore.

In Appunti da un bordello turco, ovviamente, c’è il riflesso di tutto questo, ma ci sono prima di tutto diciannove storie diversissime tra di loro. Le storie di uomini e donne (ma soprattutto uomini) alle prese con il tentativo di far quadrare i conti delle proprie esistenze mentre sullo sfondo va in scena lo squallore della periferia. Palazzoni grigi di dieci piani che cadono a pezzi e un’umanità inquieta e frustata fotografata benissimo dalla frase riportata in quarta di copertina: «Se ti vuoi fare un’idea di come se la passa una città devi andare a vedere i suoi margini. Il centro ti dirà che tutto va bene. La periferia ti dirà il resto».

Prendendo la palla al balzo, quindi, proviamo a chiedergli cosa gli dice Roma, ma ci ferma subito dicendo che essendo pigro (appunto) non ha fatto passeggiate. Allora viriamo speranzosi sulla notizia della giornata, il Nobel a Bob Dylan. La sua risposta non ci sorprende granché, ma è solo l’inizio di una stimolante conversazione sul senso della scrittura e sul perché anche una cosa semplice come guardare cadere la pioggia può trasformarsi in un atto di ribellione e forse, in fin dei conti, di amore.

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Domanda obbligata Philip. Che ne pensi del Nobel per la letteratura a Bob Dylan?

Ne sono veramente contento perché quest’uomo e la sua musica sono stati una costante fonte di gioia e ispirazione per me. Lo è stato quando ero un ragazzo e nei successivi trent’anni. Non conosco un altro cantautore popolare così creativo in termini di stile e musica e così in grado di esplorare qualsiasi genere folk, gospel, country, rock, blues. Ha fatto tutto ed è stato incredibilmente versatile. In alcune fasi della carriera è stato maggiormente legato alla tradizione poetica e narrativa presente nel folk americano, mentre in altre è stato capace di esprimere una sensibilità poetica moderna tutta sua. È stato versatile anche nel registro del linguaggio e nel modo in cui ha combinato questo con la musica.

Questa notizia mi fa felice anche perché è un riconoscimento alla poesia, che oggi è confinata in una specie di ghetto. Nelle università è entrata in un canone, è studiata e analizzata freddamente sulla pagina, ma in realtà in passato la poesia aveva una sua dimensione sociale, era legata alla musica alla preghiera, era una cosa viva. Forse il comitato del Nobel sarà criticato per aver fatto qualcosa di popolare, ma per quanto mi riguarda è una scelta interessante.

Quindi non pensi che la musica è una cosa e letteratura è un’altra?

Credo che questi confini siano ormai decisamente artificiosi. Sono costruzioni accademiche. La gente è ossessionata dai confini, dalle classificazioni, come quella tra racconti e romanzi. A loro modo, invece, sono tutte forme poetiche.

Ci sono tanti modi in cui le parole possono trovare una loro collocazione e un loro senso sulla pagina. In alcuni racconti prevale la storia, in altri ci sono descrizioni che però servono a riflettere su alcuni aspetti. Poi ci sono racconti come quelli di Bruno Schulz che hanno un certo grado di invenzione linguistica e raccontano anche attraverso le illustrazioni dello stesso autore. Per me non ha più senso vedere barriere.

Però c’è una differenza di linguaggio tra racconto e romanzo.

La differenza sta nel diverso livello di attenzione richiesto al lettore. I testi più corti sembrano suggerire una lettura più lenta. Per questo quella dei racconti è una forma più letteraria e meno popolare. Richiede un’attenzione speciale anche rispetto al come è costruito. Per la poesia vale ancora di più. La poesia richiede una lettura ancora più lenta. All’opposto, più ci si avvicina al romanzo, più si scivola in una forma di narrazione commerciale.

A proposito di scrittura, per te che cos’è? È una forma di resistenza alla realtà? O piuttosto una ricerca personale, una forma di istinto?

Scrivere, come leggere, richiede attenzione e la disponibilità a rallentare. Già questo contraddice il ritmo frenetico con cui viviamo quotidianamente perché siamo costantemente portati a fare sempre più cose e sempre più velocemente. In un certo senso quindi sì, scrivere è una forma di resistenza e leggere è come fermare il tempo e riflettere sulle cose. Mentre lavoravo ai racconti ne ero consapevole, a modo mio. La scrittura era un rifugio dalla confusione e dell’assenza di senso della mia vita. Era un sollievo sedermi nella mia stanza e lavorare al materiale grezzo delle mie esperienze cercando di dare loro una forma.

L’altro giorno ero a casa a Bucarest e pioveva fortissimo. Ho aperto la finestra, mi sono messo a osservare le luci e ho sentito gli odori. Era bellissimo. Scrivere è un po’ la stessa cosa. È riconsiderare le cose da un luogo protetto, ritirarsi in uno spazio sicuro per prendere le misure di quanto ci accade. Osservare la pioggia avendo un tetto sulla testa è bello. Non è come un’esperienza reale, che invece è difficile, dolorosa, scomoda. L’arte e la filosofia in qualche modo ti insegnano a guardare da una prospettiva, a coltivare una distanza, un distacco. Vivere, insomma, è un’altra cosa. La pioggia te la prendi tutta in testa.

C’è anche un lato estetico in tutto questo.

Sì. C’è anche un certo piacere nell’osservare la nostra esistenza “da fuori”. Faccio un altro esempio. L’altra sera guardavo Sieranevada, un film rumeno in cui ci sono molti scambi apparentemente senza senso tra i personaggi, dialoghi comunissimi, cose senza importanza. Il punto, però, è che quando sei in mezzo alle cose non te ne accorgi, eppure quando guardi tutto questo fluire di cose banali seduto comodamente in poltrona dà un certo piacere. Osservare le cose da lontano è bello, in un certo senso ci nutre. Essere in grado di replicare questo distacco è la chiave.

A proposito di distacco artistico. Se penso a te nel libro ti identifico nel personaggio del ragazzo pazzo che fa giardinaggio nel secondo racconto, Nel quartiere. Forse è l’unico personaggio veramente coerente con se stesso.

In realtà tutti i personaggi in quel racconto cercano di fare qualcosa che abbia senso. Anche i due uomini che cercano di coprire una buca, così come quello che prova a scrivere a fine giornata sono coerenti. Nel quartiere è un collage di diverse cose scritte negli anni. Non è stato scritto avendo in mente un romanzo ma è diverso dagli altri racconti perché ha molti personaggi e diverse prospettive. È lungo quanto doveva essere. Sapevo di dover lasciare quel posto (il palazzone di dieci piani dove Philip O’Ceallaigh vissuto e che funge da ambientazione al racconto, n.d.r.) e volevo scrivere qualcosa per ricordarmelo, quindi ho raccolto tutte queste storie e le ho compresse in un’unica giornata connettendole l’una con l’altra. Nel quartiere l’ho scritto piuttosto velocemente. È stato il racconto più lungo ma non il più difficile da scrivere.

E qual è stato il racconto più difficile da scrivere? (Intanto nel bar dove siamo seduti suonano una canzone di Tom Waits. “Il prossimo Nobel”, si scherza…).

Per alcuni ci ho messo diversi anni e ho fatto diverse stesure. Direi che i più difficili sono stati Mentre affondo e Riportare i fatti.

Due racconti in cui non sembra esserci tanta speranza. Nel tuo mondo sembra impossibile instaurare rapporti solidi. Gli incontri tra gli inquilini del palazzo di Nel quartiere sembrano avvenire più una questione di pessima idraulica che per una reale volontà di condivisione.

Mi chiedo se sono io incline a vedere tutto questo o se fosse un riflesso dell’ambiente in cui mi trovavo. Non saprei dire con certezza da dove arriva. Certo l’ambiente in cui mi trovavo era molto duro, così come le persone che mi circondavano. Le città dovrebbero aggregare, ma a volte fanno esattamente l’opposto e la conseguenza è che le persone non possono fare altro che collidere tra di loro. A Bucarest è ancora così, ma allora in particolare era un posto duro con gente molto frustrata che viveva in periferie dove tutto era distrutto e cadeva a pezzi. Io mi sono trasferito lì nel 2000, dieci anni dopo la caduta del comunismo e c’era un senso vero di decadenza, di disintegrazione delle cose. Nulla di nuovo veniva costruito e questa disintegrazione esterna corrispondeva ad una disintegrazione sociale. Una situazione piuttosto demoralizzante.

Tu usi immagini forti. Descrivi il palazzo dove si svolge la seconda storia come «una sala d’attesa per idioti terminali».

Sì, diciamo che non ti sentivi proprio una cima vivendo lì e il dramma è che nessuno poteva andare via per ragioni economiche. Io ho comprato la casa dove stavo per cinquemila dollari e quella era diventata la mia postazione per interpretare la mia esistenza. Vero, era piuttosto difficile come situazione, ma era anche stimolante perché mi permetteva di osservare certi aspetti della vita nella loro forma grezza e senza che niente le attenuasse.

Ora una piccola provocazione (intanto ci portano il vino). Devo ammettere di aver desiderato un punto di vista femminile. Soprattutto nel racconto che dà il titolo alla raccolta. Come mai non lo hai inserito?

Non è stata una decisione conscia o almeno non era questo il punto. Per un certo periodo sono stato interessato alle dinamiche uomo-donna, ma poi ho perso interesse. Volevo il conflitto vero. Ad un certo punto ho capito che potevo trarre il massimo scrivendo storie da un punto di vista che sfidasse il lettore, raccontando di personaggi di cui non condividevo necessariamente il modo di agire. Ho sempre ammirato gli scrittori in grado di far questo. Quelli che sembrano non mettere a loro agio i lettori, che li provocano e li sfidano.

Ci fai qualche nome?

Quando ero all’inizio del mio percorso, ho letto molte cose, soprattutto americane. Era la fase in cui cercavo di capire quale potesse essere lo stile in grado di adattarsi meglio a quello che volevo scrivere. Dovendo fare i nomi direi Hemingway, Bukowski, Carver, Céline, Hamsun, Miller. Sono scrittori diretti, piuttosto autobiografici in quello che scrivono e nel come lo scrivono. «Brutal», come piace a me.

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