Quando nel 2013 Alice Munro vinse il Premio Nobel che la consacrò come “maestra del racconto breve contemporaneo”, invece del tradizionale discorso di ringraziamento tenne un’intervista. In quell’occasione, la Munro raccontò che la prima volta che aveva inventato una storia era stato un gesto riparatore: aveva appena finito di leggere La sirenetta di Hans Christian Andersen e il finale le era sembrato ingiusto e molto triste. Allora era uscita in giardino, aveva fatto un paio di giri intorno alla casa e aveva inventato un lieto fine per la sua eroina. «Non mi preoccupavo del fatto che il resto del mondo non conoscesse mai la versione nuova», rivelò la scrittrice «perché dopo averla pensata mi sembrava che esistesse comunque».
Se si comincia a scrivere non si smette mai, che è come dire che non smette mai di osservare perché, secondo Rossella Milone, lo sguardo allenato è una qualità imprescindibile per uno scrittore, ancor più quando decide di scrivere racconti. Nell’intervista che segue abbiamo parlato di persone e di personaggi, di donne e di lottatori. Le ho chiesto delle sue storie e delle storie degli altri e abbiamo cercato di trovare una risposta comune a quell’annosa faccenda dei racconti “che non si vendono”. «Il racconto vuole che tu lo guardi» dice Rossella; così anche la lettura diventa un modo di guardare, e a guardare s’impara.

Nei racconti della raccolta Il silenzio del lottatore, la voce narrante che hai scelto assomiglia sempre un po’ a se stessa: è una donna che attraversa le varie fasi della vita, dall’adolescenza, in Operazione Avalanche, fino alla maturità, nel racconto che titola e chiude la serie; di conseguenza è un libro che può essere inteso anche come un romanzo. È stata una scelta aprioristica o un’evoluzione naturale?
È una scelta che ho fatto quasi a metà libro. Quando, cioè, avevo le idee molto più chiare che in partenza – anche se mancavano ancora parecchi racconti. All’inizio sapevo solo che avrei fotografato una donna in un determinato momento della sua vita. Poi, piano piano, ho capito che questa donna poteva essere sempre la stessa – ma anche no; che i racconti potevano susseguirsi secondo un tempo cronologico preciso – ma anche no; che queste storie potevano contenersi in un’unica grande storia – ma anche no. Ecco, a questo ‘anche no’ ci tenevo, perché volevo di certo due cose: che i racconti mantenessero la loro autonomia, e che il lettore facesse di queste possibilità quel che ne voleva.
Il silenzio del lottatore è un percorso teso a raccontare le dinamiche di coppia ma è anche una riflessione sulla natura più complessa dei legami femminili; in ogni racconto c’è una donna che cerca d’imparare dall’altra, di solito hanno età ed esperienze diverse, ed è come se tra loro ci fosse un segreto, una specie di patto che non chiariscono mai ma che le tiene insieme. È così?
Spesso sì, ma non in tutti i racconti. In Questioni di spazio per esempio non è così. In genere mi piace raccontare la natura complessa dei legami, che siano femminili o maschili, e nei racconti ho cercato di porre l’attenzione su questo, su cosa capita quando le persone interagiscono: che siano maschi o femmine, dipende solo da cosa sta accadendo loro in quel preciso momento.
La sensualità accomuna le tue protagoniste; che ne abbiano piena consapevolezza oppure no, il corpo diventa la chiave per accedere a una verità superiore e sembra un congiungimento in cui l’uomo c’entra fino a un certo punto. È questa presa di coscienza che fa vincere il lottatore?
Secondo me non c’è nessun lottatore che vince, e non c’è nessuna verità superiore da raggiungere! Nel senso che il libro è una lente che osserva – attraverso lo sguardo puntiglioso del racconto – quel che accade in un momento delicato della vita di chiunque: quando si sceglie. Quel che mi interessava raccontare non è tanto la risoluzione di questa scelta, ma quel che accade quando si sta fermi a decidere. Quando il peso di quella decisione ci fa capire che dobbiamo tirare fuori gli artigli, oppure soccombere, oppure arrenderci, oppure fermarci prima di ripartire. Il corpo fa parte di tutto questo smottamento; perché i miei personaggi non si staccano da quello che fisicamente sentono, sia in termini erotici che emotivi. Non riesco a immaginare dei personaggi che agiscano senza contemplare loro stessi anche in relazione alla propria fisicità – ma forse questo dipende dal mio passato di ballerina.
Nei tuoi racconti la musica è un elemento fondamentale, capace di calmare un attacco d’ansia o agganciare un ricordo perduto. Le relazioni cominciano e finiscono, e c’è sempre una canzone in sottofondo. Che rapporto hai con la musica? Come influenza la tua scrittura?
Non credo la influenzi. Cioè, pur amandola molto (sono anche sposata con un uomo che si occupa di musica per mestiere), è una delle cose con cui ho più difficoltà nella scrittura, una delle cose che trovo più difficili da raccontare. Infatti non ne scrivo mai, infatti mi stupisce questa domanda: forse la risposta sta in quello che ti ho detto prima: nella danza, nel movimento, che ha sempre a che fare con un ritmo, e probabilmente in quest’ottica si sviluppa anche il mio rapporto con la musica quando scrivo, un rapporto che si articola sempre passando prima attraverso il corpo.
Tu sei nata a Napoli. In un articolo di qualche settimana fa, Diego De Silva scriveva che: «Napoli […] si rivela nel corpo a corpo: è una città, come poche altre, che fin dal primo momento coinvolge fisicamente chi l’attraversa». Raffaele la Capria aveva descritto questa sensazione parecchio tempo prima, in un libro bellissimo che è Ferito a morte, quando scriveva come Napoli, “la Foresta Vergine”, riesca a entrarti “fin dentro le budella”. In un’intervista avevi dichiarato che per tanto tempo non sei riuscita a scrivere di Napoli. Come vanno le cose tra voi? Avete trovato un compromesso?
Sì, certo, da parecchio tempo, e grazie ad Anna Maria Ortese, una delle più grande raccontatrici di Napoli, secondo me, se non la migliore, oltre a Fabrizia Ramondino. È lei che mi ha dato una lente per farci pace – con la scrittura, intendo – e questa cosa è successa tanto tempo fa, perché il primo libro che ho pubblicato raccontava già ampiamente Napoli. Questa pace benefica risiede nella mia scrittura sin da allora, e sta in tutto quello che scrivo, anche quando non scrivo di Napoli.
Scrivere è anche una questione di sguardo, inteso come capacità di soffermarsi su alcuni dettagli. Non a caso una delle lezioni di Eudora Welty, in Come sono diventata una scrittrice, s’intitola “Imparare a guardare”. Com’è cambiato il tuo sguardo da quando hai cominciato a scrivere?
Questo testo di cui parli lo amo molto, e durante i miei corsi e le presentazioni lo cito spesso, perché secondo me lo sguardo è una delle qualità imprescindibili per uno scrittore – forse, molto forse, ancora più dello stile. Era Cechov a dire: Non importa cosa guardi, ma come lo guardi. Per me questa cosa è Bibbia, perché è lì che risiede il luccicore di uno scrittore, la sua capacità empatica, la sua comprensione delle cose e delle persone. Insieme, ovviamente, al modo in cui poi saprà riporre nelle parole quello che ha visto. Quindi il mio sguardo si modifica nel tempo, è questione di allenamento come con le parole; lo scrittore non smette mai di scrivere, si dice, ed è vero nel senso in cui lo scrittore non smette mai di imparare a osservare.
Hai scritto diversi racconti, l’ultimo è contenuto nella raccolta L’età della febbre, pubblicata da minimum fax nel 2015. Del 2013 è il romanzo Poche parole, moltissime cose. Quale forma letteraria preferisci da scrittrice? Quale da lettrice? (ammesso che ci sia una distinzione tra un’anima e l’altra. C’è?).
La novella. Cioè una cosa che sta a metà tra il racconto e il romanzo, che in altri paesi come in Sud America è una forma codificata, nominata, assimilata; da noi invece dobbiamo tutto mascherare da romanzo, o da romanzo in racconti, o da altro… Insomma: il mio modo di scrivere è un respiro in apnea, e le storie che osservo più spesso e che mi interessa raccontare stanno in quella forma lì. Ma questo non significa che mi sento più una cosa o l’altra: se scriverai un romanzo o un racconto non lo decidi tu, lo decide la storia che vuoi raccontare.
Nel 2014, insieme ad Armando Festa, hai ideato Cattedrale, un progetto dedicato interamente al racconto, un osservatorio nato dall’esigenza di restituire dignità letteraria a una forma che ha sempre goduto di minor autorevolezza rispetto al romanzo. In questi anni di attività pensi che qualcosa sia cambiato?
No. E lo dico con molta convinzione. La percezione potrebbe essere diversa perché si respira un’aria buona intorno ai racconti, più benevola: in effetti si parla molto di più di narrativa breve, e, forse anche grazie a Cattedrale, sono sorte molte realtà che vogliono investigare questo aspetto della letteratura. Grazie anche a tutte queste realtà che fanno bene il loro lavoro (penso a Racconti Edizioni, solo per dirne una), sicuramente è partito un processo che serve prima di tutto a educare, a sensibilizzare, ad allenare il lettore al racconto breve. Ma in termini pratici ancora non è cambiato nulla: in soldoni gli editori investono poco o nulla sulle raccolte (tranne alcune realtà virtuose, di cui Cattedrale si occupa ampiamente che però continuano ad avere enormi difficoltà sul mercato), e gli scrittori continuano a dover scrivere romanzi se vogliono vendere.

La differenza tra la lettura di un racconto e quella di un romanzo è nello sforzo d’immaginazione richiesto, lo stesso che distingue la nostra esperienza quando guardiamo un film o una fotografia. I racconti sono più difficili da comprendere perché non siamo così abituati a ragionare sull’intravisto?
Il racconto vuole che tu guardi. E guardando, ti costringe a trovare. Se un racconto incontrerà un lettore attento e allenato, quel racconto farà il suo dovere. Se un racconto non troverà un lettore che avrà voglia di far parte del libro, sarà un racconto sfortunato.
“I racconti non vendono” perché “i racconti non si leggono” o i racconti non si leggono perché non vengono comunicati nel modo giusto?
I racconti non vendono perché non si investe sui racconti. E poiché non si investe sui racconti ne scrivono in pochi; quei pochi devono essere molto bravi, perché come dicono i grandi, da Piglia a Welty, se non sai scrivere bene in un racconto si noterà. Meno scrittori buoni scriveranno racconti, meno si pubblicheranno, più i lettori non saranno abituati a leggerne.
Da Cattedrale è nato Trenta Cartelle, un laboratorio permanente che si occupa di promuovere la forma breve con un lavoro formativo specifico. Quali sono, secondo te, gli errori più comuni tra gli aspiranti scrittori? C’è qualche consiglio che senti di poter dare?
Trenta Cartelle è il fiore all’occhiello di Cattedrale: è un laboratorio, e in quanto tale è uno spazio per me bellissimo in cui si parla, si discute, si ragiona sui racconti; e poi sì, si scrivono anche, ma solo dopo averne molto parlato e letto. Sono assai orgogliosa di questo spazio, perché finora è stato un luogo di altissima condivisione e passione, dove certo si scrive, ma si fa anche molto altro: si fa bottega, si cerca di restituire dignità al racconto partendo da lì, dalla formazione, da una profonda comprensione, e dalla lettura, prima di tutto. In questo ci fa da spalla anche il gruppo di lettura Il bestiario della Cantina, che, in collaborazione con la libreria Assaggi, ogni settimana permette alle persone di leggere e discutere dei racconti che più amano. Per cui l’unico consiglio che posso dare a un aspirante scrittore di racconti è: leggere racconti. Ma questo vale per chiunque voglia scrivere, qualsiasi cosa voglia scrivere.