Di Danilo Tumminello
«[…] mi stavo bevendo un goccetto davanti alla televisione quando ho sentito la macchina imboccare il vialetto […]».
C’è Carver, seduto in una poltrona anni ’70, in una stanza dalle tonalità marroni. Indossa un maglione, dei cui dettagli non saprei dire, ma che sono sicuro siano di quelli che si vedono nelle foto degli anni ’70. Quelle foto dalle tonalità marroni, gialle, verde bottiglia a volte. Se il mondo negli anni ’70 fosse, nella realtà, tutto su questa scala di marroni non è dato dire con certezza. Può darsi che questo effetto sia solo dovuto allo sbiadire delle foto. Ma non credo sia importante.

Carver ha la faccia sua. I capelli corti suoi. La presenza robusta, la sua. Ha le sembianze con cui appare nelle foto che si trovano di lui. Carver è seduto nel suo salotto, avvolto nelle tonalità cromatiche di cui sopra. Tiene un bicchiere in mano. Guarda la tv, che forse in realtà è più vecchia di quella del racconto che, scopro oggi, risale all’81. La televisione dell’immagine è più antica di quelle che c’erano negli anni ’80. O almeno così credo. Ma non credo sia importante.
Nella mia mente è questo quello che vedo ogni volta che penso a Carver, ai suoi racconti. Ci sono immagini che la mente produce e immagazzina, e che ogni tanto saltano fuori senza un vero perché. Spesso sono immagini legate all’infanzia: un palazzo, un’insegna, frammenti di un dialogo durante una sosta in doppia fila. Tutte cose futili che, chissà perché, ogni tanto scappano via come i bussolotti della lotteria e si fanno pensare. L’immagine di Carver seduto nel suo salotto dalla moquette polverosa è una di quelle. È il momento in cui, riscopro adesso che ho riletto Cattedrale dopo anni, lui – il protagonista-Carver – aspetta che la moglie torni a casa col cieco.
Mi accorgo anche che la casa di Carver è sempre la stessa nella mia mente. Cioè il salotto, la cucina, il patio con l’altalena di legno – che forse non è mai menzionata ma che per me è là –sono sempre gli stessi di racconto in racconto, anche se cambiano i personaggi e le situazioni. La scenografia che gli costruisco attorno è sempre uguale. Perché? Non credo sia importante. Credo però sia importante notarlo, e scriverlo, per sottolineare la potenza di un racconto e l’efficacia espressiva dello scrittore che la produce.
È una manciata di parole. È il punto di rottura. Il protagonista-Carver è in uno stato di ansia. C’è la paura dell’incognito: come si comporterà il cieco? Come si comportano i ciechi? C’è la gelosia nei confronti della moglie, quasi negata perché ingiustificata e culminante nel gesto liberatorio di lasciare scoperta, anzi scoprire di nuovo e appositamente, la sua “coscia succulenta”. C’è la desolazione della vita di un uomo che, si scoprirà dopo ma in qualche modo traspira già ora, non ama neanche un po’ il lavoro che fa, ma che non ha scelta: «Da quanto tempo lavoravo nell’attuale impiego? (Tre anni.) Mi piaceva il mio lavoro? (Neanche un po’.) Avrei continuato a farlo? (Che scelta avevo?)».
Se il racconto è la forma del non detto, Carver non dice mai. Carver comunica. Non ho i mezzi per fare collegamenti tra la vita di Carver e il suo racconto, inserirlo nel contesto letterario in cui è stato prodotto e magari cercare giochi di parole per nascondere l’insicurezza della mia analisi. E non credo sia importante.
Posso solo ancora una volta notare, raccogliere le sensazioni che Carver mi lascia, quel gusto amaro che cola dalle sue storie, che sembrano buttate là ma che sono sassolini che producono nelle acque dell’immaginazione cerchi irregolari e continui, che durano anni nelle teste dei lettori (anche solo uno, che importa?).
Questo è quello che si cerca leggendo, credo.
Carver comunica. Comunica un retrogusto. E lo fa lasciandolo traspirare dalle sue parole. Per coincidenza temporale lo accosto a quella musica synth-pop che nonostante un’incoffessabile fighetteria ti piace, o quei pezzi di canzone che alla fine cantano tutti.
C’è un linguaggio segreto nelle note, nelle parole, nelle storie. Alcune volte gli autori lo sfiorano, e il significato di quel codice muto sale su come schiuma, colla che rimane attaccata alle pareti del cervello di chi ascolta, di chi legge.
Ed è questo, credo, veramente l’importante.
Danilo Tumminello ha pubblicato Non ora, Nico sul numero V di Tre racconti. Per leggerlo puoi sfogliare la rivista sul sito oppure scaricare il formato Pdf.
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