Dentro «il gioco del rovescio» di Antonio Tabucchi

Foto di Rebeca Yanke, rielaborazione b/n di Davide Bovati

Qualche tempo fa, quando ho cominciato ad avvicinarmi alla scrittura, ho incontrato un ottimo consiglio; suonava all’incirca così: prendi un testo che ti piace, leggilo più volte, ricopialo, studialo a fondo, cerca di capire che cosa ti piace e perché ti piace, cosa non ti piace e perché non ti piace, quindi prova a trarne ispirazione per qualcosa di tuo. Ora: non ricordo dove lo avessi letto, o se questo consiglio non fosse frutto di un processo di sedimentazione di varie letture intorno al mestiere di scrivere (dopotutto questo consiglio è comune a molti scrittori che si sono cimentati con lo scrivere di scrittura), però mi piacque e un giorno provai a metterlo in pratica.

 

Era un periodo di bonaccia: provavo quel sottile sconforto che prima o poi colpisce chiunque stia provando a sviluppare un romanzo o un racconto e si trova alle prese con la sensazione di non avere nulla di interessante da dire (e di non saperlo dire nel modo giusto, con le giuste parole). Così mi venne in mente quel consiglio, o comunque nella mia testa, una domenica (a pensarci ricordo anche degli altri dettagli, tipo che faceva molto caldo e avevo in qualche misura bisogno di evadere da un pomeriggio dall’andamento particolarmente indolente) cominciò a ronzarmi l’idea di prendere in mano un racconto, ricopiarlo per intero e poi cercare di analizzarlo; almeno per capire perché mi piaceva così tanto, quali erano i meccanismi che lo facevano funzionare.

In quel periodo – e devo ammettere che quel periodo non accenna a concludersi – leggevo e rileggevo i libri di Antonio Tabucchi. Sostiene Pereira, certo, ma anche quella piccola perla che è Requiem e le raccolte di racconti degli anni Ottanta e Novanta. Donna di Porto Pim, Piccoli equivoci senza importanza, L’angelo nero e soprattutto Il gioco del rovescio. In particolare mi piaceva (e mi piace) il racconto che dà il nome alla raccolta. Il gioco del rovescio era un racconto che mi affascinava molto per caratteristiche piuttosto superficiali: l’atmosfera lusitana, i rimandi a Pessoa e alla storia dell’arte, la sottile inquietudine che attraversava la storia e soprattutto una sua certa enigmaticità e mistero. Mi piaceva, Il gioco del rovescio, ma avevo la sensazione che mi sfuggisse qualcosa. Così decisi di ricopiarlo a mano su un quaderno per cercare di ragionarci su. Lo presi come un gioco, un passatempo più vicino all’enigmistica che alla letteratura.

 

La trama, in breve (spoiler inevitabile)

Il racconto comincia con l’io narrante intento ad ammirare il dipinto Las Meninas di Diego Velázquez conservato al Museo del Prado proprio nel giorno in cui una sua cara amica, Maria do Carmo, muore a Lisbona. Contemplando il dipinto, all’io narrante tornano in mente le parole di Maria do Carmo riguardo alla figura rappresentata nello sfondo del quadro («la chiave del quadro sta nella figura di fondo, è un gioco del rovescio»[1]).

L’io narrante scopre della morte dell’amica una volta rientrato in albergo quando riceve una telefonata dal marito della defunta, Nuno Meneses de Sequeira. L’uomo comunica appena l’ora del funerale e poi riattacca. A questo punto il protagonista prende un treno notturno per raggiungere Lisbona con l’idea di partecipare al funerale. 

Durante il viaggio, l’io narrante ricorda alcuni episodi vissuti insieme a Maria do Carmo. In particolare sono rievocate le passeggiate attraverso i quartieri di Lisbona cari a Fernando Pessoa e ai suoi eteronomi e vengono ricostruiti alcuni episodi essenziali del rapporto tra i due personaggi. Attraverso alcuni scambi di battute tra il narratore e alcuni personaggi che incontra sul treno, si intuisce che il narratore è un italiano che conosce a fondo la letteratura portoghese e soprattutto Pessoa. È una persona al di sopra di ogni sospetto, ma il suo legame con il Portogallo e con Maria do Carmo è più profondo di un comune amore per la letteratura lusitana: l’io narrante, con la scusa di comunicare l’uscita delle nuove traduzioni di Pessoa, mantiene i contatti con Maria do Carmo e le consegna denaro e lettere per i dissidenti del regime di Salazar.

Una volta a Lisbona, il narratore raggiunge la casa di Maria do Carmo e incontra Nuno Meneses de Sequeira. Questi dimostra di sapere molto sulle attività della moglie e disillude l’io narrante riguardo la limpidezza d’intenti della donna. Nuno Meneses de Sequeira sostiene che Maria do Carmo abbia passato tutta la sua vita a fare un gioco singolare, il gioco del rovescio, e in sostanza anche l’io narrante era caduto in un suo rovescio: l’aveva creduta una rivoluzionaria quando, invece, era una spia del regime. Tuttavia l’uomo consegna all’io narrante un biglietto da parte di Maria do Carmo su cui è scritta la parola SEVER. Una volta ritiratosi in albergo, il narratore ragiona sul significato della parola SEVER e intuisce che, rovesciata, genera la parola REVES che in spagnolo significa rovescio, mentre in francese significa sogni. E proprio quando si addormenta, l’io narrante finisce per sognare Maria do Carmo al posto della figura di fondo della tela di Velázquez, la stessa figura che Maria do Carmo riteneva fosse la chiave del quadro.

Il racconto si chiude con il narratore che cerca di raggiungere Maria do Carmo per scoprire la verità sul rovescio, ma quello che ottiene è precipitare in un altro sogno. La verità su Maria do Carmo rimane inconoscibile, prigioniera del gioco/enigma.  

Affondare la penna nella carta

Se una prima lettura mi aveva dato un’idea della trama, la rilettura e poi la ricopiatura del testo sul mio quaderno mi hanno fatto approfondire la perfetta circolarità del racconto e la sua natura di enigma chiuso. Il gioco del rovescio si apre e si conclude sul quadro di Velázquez e sottintende al suo enigma e alla sua possibile soluzione.

Quando Maria do Carmo Meneses de Sequeira morì io stavo guardando Las Meninas di Velázquez al museo del Prado. Era un mezzogiorno di luglio e io non sapevo che lei stava morendo. Restai a guardare il quadro fino alle dodici e un quarto, poi uscii lentamente cercando di trasportare nella memoria l’espressione della figura di fondo, ricordo che pensai alle parole di Maria do Carmo: la chiave del quadro sta nella figura di fondo, è un gioco del rovescio.[2]

Las Meninas raffigura l’Infanta Margarita con le sue damigelle d’onore e altri membri della corte di re Filippo IV di Spagna. Ma soprattutto raffigura lo stesso Velázquez nell’intento di dipingere una tela di cui l’osservatore non può che vederne il rovescio. Cosa è ritratto su quella tela resta un enigma indissolubile per chi osserva il quadro, mentre la figura di fondo, che si ritiene essere il maresciallo di palazzo José Nieto Velázquez, è l’unica che ha accesso alla verità (oltre allo stesso Velázquez, autore dell’opera).

 

Las Meninas Diego Velázquez
Diego Velázquez, Las Meninas

 

La filologa Thea Rimini, nel suo Album Tabucchi. L’immagine nelle opere di Antonio Tabucchi afferma che «il quadro di Velázquez, che del racconto eponimo è il fulcro, estende la sua grammatica architettonica all’intero libro[3]». E a proposito di architettura, va detto che sia il quadro di Velázquez che il racconto di Tabucchi sono enigmi solo apparentemente aperti. In entrambi, la figura sullo sfondo mette in moto il gioco di specchi e di rovesci. Nel quadro José Nieto Velázquez sposta una tenda e permette così alla luce di entrare nella stanza e rivelare la presenza in uno specchio alle spalle del pittore Diego Velázquez di re Filippo IV e sua moglie Maria Anna d’Asburgo. In questo modo il maresciallo di palazzo costituisce la chiave, non tanto per svelare l’enigma del quadro (che rimane insondabile ed ermetico), quanto per mettere in moto l’enigma stesso. Allo stesso modo, nel racconto, l’affermazione di Maria do Carmo «la chiave del quadro sta nella figura di fondo» fornisce una possibilità alla soluzione dell’enigma, possibilità che tuttavia viene frustrata dall’impossibilità dell’io narrante di scoprire la verità su Maria do Carmo. L’io narrante non può né accedere in senso fisico, concreto, al revés (nell’accezione spagnola) perché Maria do Carmo è morta ed è irraggiungibile; né affidarsi a una soluzione che appartiene ai territori dell’inconscio, rappresentato dai sogni, dai rêves (interpretando la parola in francese).

Approdare dietro l’arazzo

Il gioco del rovescio del titolo non è solo quello del dipinto di Velázquez. È anche un passatempo da bambini, un ricordo dell’infanzia che Maria do Carmo racconta all’io narrante:

Il gioco consisteva in questo, diceva Maria do Carmo, ci mettevamo in cerchio, quattro o cinque bambini, facevamo la conta, a chi toccava andava in mezzo, lui sceglieva uno a piacere e gli lanciava una parola, una qualsiasi, per esempio mariposa, e quello doveva pronunciarla subito al rovescio, ma senza pensarci sopra, perché l’altro contava uno due tre quattro cinque, e a cinque aveva vinto, ma se tu riuscivi a dire in tempo asopiram, allora eri tu il re del gioco, andavi in mezzo al cerchio e lanciavi la tua parola a chi volevi tu[4].

Questo secondo gioco del rovescio è di certo meno affascinante di quello del quadro. Tuttavia, nell’economia del testo, non è meno importante. Se il quadro fornisce l’architettura per il racconto, che poi per estensione «modella tutti gli altri [racconti, n.d.r] in un’analoga visione delle cose», il gioco infantile svolge un ruolo narratologico essenziale. Innanzitutto per quanto riguarda il biglietto che Nuno Meneses de Sequeira consegna al narratore: il fatto stesso che la parola SEVER rovesciata assuma un significato (seppure doppio), allude a Maria do Carmo. In secondo luogo, durante la spiegazione del gioco, Maria do Carmo accenna alle regole: colui o colei che “lancia la parola” è il re del gioco ed è al centro del cerchio. Ebbene: se il cerchio è una rappresentazione stilizzata della vita (almeno secondo alcune tradizioni orientali), chi sta al centro del cerchio si trova in un altrove e da quell’altrove guida e osserva dipanarsi il gioco dell’esistenza.

A proposito di rovescio (e del binomio vita/morte) va senz’altro citato un passo della conversazione di Antonio Tabucchi con Luca Cherici, contenuta nel volume Dietro l’arazzo. In un passaggio della conversazione Tabucchi cita questa poesia di Czesław Miłosz:

 

Quando morirò, vedrò la fodera del mondo,

l’altra parte, dietro l’uccello, la montagna, il tramonto.

Il vero significato che vorrà essere letto.

Ciò che era inconciliabile, si concilierà.

E sarà compreso ciò che era incomprensibile.

Ma se non c’è una fodera del mondo?

Se il tordo sul ramo non è affatto un segno

Ma solo un tordo sul ramo, se il giorno e la notte

si susseguono senza badare a un senso

e non c’è nulla sulla terra, oltre questa terra?

Se così fosse, resterebbe ancora la parola

suscitata una volta da effimere labbra,

che corre e corre, messaggero instancabile,

nei campi interstellari, nei vortici galattici

e protesta, chiama, grida[5].

 

Poi, in un secondo momento, proprio a proposito del Gioco del rovescio Tabucchi afferma:

Quando lo scrissi non avevo ancora letto la poesia di Miłosz di cui parlavamo prima. Quella in cui desidera vedere il rovescio dell’esistenza. L’intenzione era di quella natura: di spiare nel rovescio dell’esistenza, nel rovescio delle cose. Dunque, non nella faccia visibile della realtà, ma in quella che sta dietro quella faccia visibile, ammesso che dietro la faccia visibile ci sia qualcosa. Quello che mi interessava non era guardare le figure dell’arazzo, ma tutti i nodi e i fili che stavano dietro al tappeto; […] Però è evidente che in quel libro c’è, almeno credo, la consapevolezza che il retro dell’arazzo è fatto di fili talmente intricati da costituire un labirinto. Dunque, non sono leggibili come figure. Delle due, l’una: o il labirinto, o la figura nella sua apparenza, che però non puoi sapere come è fatta[6]

E infatti il narratore, appena prima di precipitare nel sogno in cui si troverà di nuovo di fronte al labirinto di illusioni barocche di  Velázquez, pensa: «Forse Maria do Carmo aveva finalmente raggiunto il suo rovescio[7]». Ancora una volta quello che sta dall’altra parte è inconoscibile e non si può fare altro che fare delle ipotesi, formulare dei forse.

«Probabilmente bisogna accontentarsi della figura che appare sulla faccia visibile, non sul verso[8]» suggerisce infine Tabucchi.

 

Un’ulteriore suggestione: Il gioco del rovescio e l’enigma della letteratura

Il personaggio di Maria do Carmo resta ambiguo. Appoggia gli oppositori del regime o ne è una sostenitrice? Chi è nel suo rovescio: il narratore o il marito? Tuttavia abbiamo almeno un dato: conosceva bene le opere di Fernando Pessoa e dimostrava di condividerne la passione con il narratore. Punto chiave su cui si articola una parte del racconto, infatti, è costituito dalle passeggiate del narratore e di Maria do Carmo nella Lisbona degli “itinerari fernandini”, ossia i luoghi raccontati nelle opere di Pessoa e dei suoi eteronimi. Gli eteronimi sono dei personaggi fittizi, inventati dallo stesso Pessoa e a cui il poeta aveva fornito una vita, anche al di là di quella puramente letteraria, dando loro il compito di animare il dibattito letterario sulle riviste portoghesi dalla metà degli anni Dieci alla metà degli anni Trenta del Novecento.

Pessoa, una volta scrisse: «La letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta[9]». Tuttavia, per quel che riguarda gli eteronimi, Pessoa sembra rovesciare il paradigma: non è più la vita a espandersi con la letteratura, ma sono frammenti della stessa letteratura a “prendere vita”. Anche sull’onda di questa suggestione, il personaggio di Maria do Carmo dice:

«[…] Pessoa è un genio perché ha capito il risvolto delle cose, del reale e dell’immaginato, la sua poesia è un juego del revés[10]».

Il gioco del rovescio, forse, può essere interpretato anche come una riflessione sul mistero della letteratura. L’architettura stessa del racconto – un labirinto, un enigma chiuso – appare come un possibile tentativo della letteratura di riprodurre la vita. La letteratura, come la vita, è un arazzo; sono fili che s’intrecciano nella speranza di costituire un disegno. Qualcosa alla fine compare: in questo caso la storia di un uomo alla ricerca di una verità che proprio nel momento in cui sembra che stia per essere afferrata, svanisce. Tuttavia, anche dall’altra parte dell’arazzo, a esaminare a fondo i vari fili che compongono il racconto, non si ottiene alcuna risposta univoca: la verità in merito alla vicenda di Maria do Carmo si perde in una trama inestricabile.

Se c’è, una verità, è altrove. Da questa parte, che è quella del narratore (e anche del lettore), rimane solo l’inquietudine per l’inconoscibile. In questo senso Maria do Carmo non è solo «la figura di fondo» del dipinto di Velázquez (come suggerisce il racconto), ma rappresenta anche lo stesso Velázquez: è personaggio, artefice del gioco di illusioni barocche e custode della verità in merito al gioco stesso.

Trafiggere la superficie del testo (fine del gioco)

Quello che ho cercato di fare, con questo mio articolo, è ciò che afferma Thea Rimini in questo passaggio del suo libro:

Il gioco del rovescio diventa per Tabucchi il gioco del mondo. In nome della coincidentia oppositorum, il modello epistemologico del “rovescio” prevede uno sguardo laterale, obliquo, in tralice sulle cose. E al lettore rivolge un invito a trafiggere la superficie del testo per snidare i rovesci, e le trappole, della scrittura[11].

Ho cercato di leggere Il gioco del rovescio di Tabucchi con uno sguardo laterale, in tralice. Ho affondato la penna nella carta e nella superficie del testo. Ho cercato di trafiggere tale superficie per snidare i rovesci e le trappole della scrittura. Ebbene: non penso di aver ottenuto delle risposte. Per quanto mi riguarda il racconto ha mantenuto il suo mistero. Antonio Tabucchi, come Maria do Carmo e come Velázquez, è stato l’artefice di un magnifico gioco del rovescio. E io credo di esserci rimasto intrappolato e di essermi illuso, a un certo punto, di avere in mano la verità. E credo che, in conclusione, alcune delle cose che ho scritto in questo lungo testo siano state solo abbagli; in altre, forse, mi sono avvicinato al vero, chissà. A ogni modo, posso dire che trafiggere la superficie del testo e partecipare al gioco di Tabucchi mi abbia arricchito, almeno come lettore.

 


 

[1] Antonio Tabucchi, “Il gioco del rovescio” in Il gioco del rovescio, Feltrinelli, 2012 (Pag. 11) 

[2] Antonio Tabucchi, “Il gioco del rovescio” in Il gioco del rovescio, Feltrinelli, 2012 (Pag. 11) 

[3] Thea Rimini, “Giochi di specchi e tele rovesciate: Tabucchi barocco?” in Album Tabucchi. L’immagine nelle opere di Antonio Tabucchi, Sellerio editore, 2011 (Pag. 108)

[4] Antonio Tabucchi, “Il gioco del rovescio” in Il gioco del rovescio, Feltrinelli, 2012 (Pag. 14)

[5] Poesia di Czesław Miłosz tratta da Antonio Tabucchi con Luca Cherici, “Dietro l’arazzo. Conversazione sulla scrittura”, Perrone editore, 2013 (Pag. 11)

[6] Antonio Tabucchi con Luca Cherici, “Dietro l’arazzo. Conversazione sulla scrittura”, Perrone editore, 2013 (Pagg. 24-25)

[7] Antonio Tabucchi, “Il gioco del rovescio” in Il gioco del rovescio, Feltrinelli, 2012 (Pag. 24)

[8] Antonio Tabucchi con Luca Cherici, “Dietro l’arazzo. Conversazione sulla scrittura”, Perrone editore, 2013 (Pag. 25)

[9] Fernando Pessoa, “Obras em Prosa de Fernando Pessoa. Textos filosóficos e esotéricos.” Prefácio, organização e notas de A.Quadros, Europa-America, 1987 (vol. VI n.° 417 della collana “Livros de Bolso Europa-América”) (Pag. 60)

[10] Antonio Tabucchi, “Il gioco del rovescio” in Il gioco del rovescio, Feltrinelli, 2012 (Pag. 13)

[11] Thea Rimini, “Giochi di specchi e tele rovesciate: Tabucchi barocco?” in Album Tabucchi. L’immagine nelle opere di Antonio Tabucchi, Sellerio editore, 2011 (Pag. 109)

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