Di Juan Rodolfo Wilcock, classe 1919, possiamo leggere poesie, romanzi, un saggio del suo lavoro di critico letterario e naturalmente (vista la pagina che avete aperto nel browser) racconti.

Argentino, con un passato da ingegnere e una carriera già avviata nel campo della letteratura nel suo Paese, si trasferì a Roma sul finire degli anni Cinquanta, per abbandonarla alcuni anni dopo in favore di località meno caotiche della campagna romana. Altre sedi sono più indicate di questa per ricostruire un profilo biografico di Rodolfo Wilcock, che fu un personaggio molto particolare, dotato di un suo fascino magnetico (assolutamente percepibile anche nella sua opera) che seppe conquistare molti, e che non mancava di attirare l’attenzione dei più, pur avendo l’autore una certa vocazione alla marginalità. Con un classico esempio di orgoglio da provincialotto mi limito a ricordare che nell’elenco dei luoghi in cui Wilcock visse figura pure Velletri, che poi sarebbe il posto dove vivo. In città si serba ancora oggi la commossa memoria del Wilcock poeta, che viene ricordato come un personaggio di cultura e anfitrione di un salottino letterario frequentato da alcune delle personalità in vista dell’epoca.
Le opere di Wilcock sono state pubblicate dai principali editori (Bompiani, Rizzoli, Einaudi, Guanda, Adelphi), salvo sparire pian piano dalla circolazione e dai cataloghi, come spesso succede anche agli autori di riconosciuto valore. Le capricciose maree del mondo editoriale, impersonificate in questo caso da Adelphi, ci stanno però restituendo negli ultimi anni alcuni dei suoi lavori migliori. Tra i libri di Wilcock, ripubblicati da poco in edizione economica, troviamo due raccolte di racconti: Lo stereoscopio dei solitari e La sinagoga degli iconoclasti, già usciti per la stessa casa editrice nel 1972. Solo i titoli delle raccolte sono già due piccoli capolavori.
Lo stereoscopio dei solitari è costituito da sessantacinque racconti distribuiti in 181 pagine, siamo quindi nello spazio del racconto breve, anzi, brevissimo. Il filo conduttore dell’opera, però, è ben evidente e l’atmosfera che si respira è la stessa dalla prima all’ultima pagina, tanto che Wilcock definì questo libro un romanzo con settanta personaggi principali che non si incontrano mai. I racconti dello stereoscopio, tra il fantastico e il surreale, sono scritti con uno stile chiaro e lineare e con un abbondante uso dell’ironia che li rende una lettura piacevolissima e avvincente (vi risparmio l’abusata metafora del cestino di ciliegie, che sarebbe assolutamente calzante in questo caso).
Tra i protagonisti dei racconti ci sono alcuni personaggi tratti dalla mitologia classica, reinterpretati in chiave moderna. Avete mai pensato, ad esempio, ai problemi che un centauro potrebbe affrontare in inverno nella ricerca di un abbigliamento adatto a riparare dalle intemperie la sua particolare conformazione fisica? Ecco, dove il mito presenta una lacuna subentra Rodolfo Wilcock. E mentre il centauro è alle prese con i suoi problemi di outfit, qualche pagina più in là «l’anguicrinita» Medusa si dispera tormentata dalle sue vipere e dalla sua infelice condizione di attempata signora.
Gli Atlantidei, invece, non si sono estinti solo per colpa delle maree, ma anche a causa della burocrazia del loro sistema di governo, di cui Wilcock ci fornisce un assaggio:
Abbiamo avuto rinnovata conferma, nelle più alte sfere scientifiche dell’isola, del già previsto progressivo risollevamento della piattaforma continentale atlantica, il quale movimento tuttavia sembra essere stato così subitaneo da trascinarsi dietro le acque dell’oceano; ciò spiega il fatto che queste abbiano raggiunto in alcune località un livello falsamente preoccupante […] Il governo ha preso le misure adatte a scongiurare questo temporaneo pericolo, mediante opportune dighe a sbarramenti, mentre i sacerdoti amorevolmente provvedevano a benedire le salme galleggianti.[1]
Altro strumento di cui Wilcock si serve nei suoi racconti è quello della satira, diretta sia verso caratteri generali dell’essere umano sia verso categorie particolari. A me ad esempio hanno colpito le riconoscibilissime stilettate al mondo dell’editoria (c’è una consulente letteraria molto particolare in questo libro), e ai suoi colleghi scrittori, paragonati a un gruppo di bambole in un armadio chiuso, tutti presi a parlarsi addosso tra loro mentre da fuori il mondo identifica i loro scambi come versi di topi.
Un quadro perfettamente veritiero anche al giorno d’oggi.
Complessivamente divertente la satira wilcockiana non manca di fornire qualche spunto di riflessione più serio e profondo. Lo strumento è abbondantemente utilizzato anche nell’altra raccolta di Rodolfo Wilcock, La sinagoga degli iconoclasti. I racconti in questo caso sono un po’ più lunghi rispetto a quelli de Lo stereoscopio dei solitari, e hanno tutti come protagonisti un personaggio umano. Lo stile è lo stesso della raccolta precedente, ma la struttura in questo caso è più articolata: i racconti della sinagoga sono una sorta di mini biografie di personaggi di fantasia, la vita di ciascuno dei quali è riassunta nelle poche pagine del racconto. I personaggi sono inventori, filosofi, imprenditori e scienziati, che fanno a gara a proporre teorie assurdamente strampalate e invenzioni la cui utilità potrebbe generare più di qualche perplessità nel lettore. Tutte le storie, però, sono narrate con la massima serietà, e con tanto di dettagli circa le alterne fortune dei protagonisti.
Nella raccolta possiamo trovare invenzioni di generica utilità nella vita di tutti i giorni, tra cui:
Un orologio a vento, tipo mulino, adatto per fari, alta montagna e altri luoghi inospitali […] Una lavatrice a pedale, in seguito superata dalla lavatrice a legna […] Un sistema di campanelli di ingresso selettivi, per distinguere se la persona che bussa è un visitatore importante, una persona senza importanza, un fastidioso o il postino.[2]
Vi avviso di un rischio relativo alla lettura di questo libro: molte delle trovate di Wilcock a fine lettura vi sembreranno indispensabili.
Accanto a umili seppur prolifici inventori troviamo anche filosofi, intenti a speculare sui massimi sistemi e a confutare le più celebri teorie filosofiche e scientifiche affermatesi nel corso dei secoli.
L’apparecchio di sua invenzione consiste di due eliche di ottone incastrate in modo che, lentamente girando ciascuna intorno all’altra e dentro l’altra, dimostrano l’esistenza di Dio. Delle cinque prove classiche questa è detta la prova meccanica.[3]
Arrivati a questo punto dovrei essere riuscito a restituirvi almeno un’idea di quello che troverete nei racconti di Wilcock, e dovrebbe anche essere chiaro quanto apprezzi questo autore. Se pensate di leggerlo il mio suggerimento è di iniziare con Lo stereoscopio dei solitari ed eventualmente proseguire con La sinagoga degli iconoclasti. Attenzione però, a fine lettura potreste venir presi, come sta succedendo a me, dal bisogno irrefrenabile di procede al recupero sistematico di tutto quanto ha scritto questo geniale personaggio.
[1] J. Rodolfo Wilcock, “L’atlantide” in “Lo stereoscopio dei solitari”, Adelphi, 2017 (pp. 161-162).
[2] J. Rodolfo Wilcock, “Jesus Pica Planas” in “La sinagoga degli iconoclasti”, Adelphi, 2014 (pp. 206-208).
[3] J. Rodolfo Wilcock, “Socrates Scholfield” in “La sinagoga degli iconoclasti”, Adelphi, 2014 (p. 151).