La letteratura si differenzia dalla vita in questo: che la vita è piena di dettagli in modo amorfo, e raramente ci guida verso di essi, mentre la letteratura ci insegna a notare: a notare, per esempio, come spesso mia madre si strofini le labbra appena prima di darmi un bacio; che il diesel al minimo di un taxi londinese fa un rumore da trapano; che le vecchie giacche di cuoio mostrano striature bianche simili alle strisce di grasso delle fette di carne; come la neve fresca “scricchioli” sotto i piedi; come le braccia di un neonato siano così grasse da sembrare legate con uno spago (be’, gli altri sono miei, ma quest’ultimo esempio viene da Tolstoj).[1]
La citazione è tratta da Come funzionano i romanzi del critico letterario inglese James Wood, una lettura che mi sta accompagnando in questi giorni. Fa parte di tutta una serie di libri che sto leggendo ultimamente che riguardano l’editing, la costruzione delle storie e, in linea più generale, la narratologia. Quello che mi interessa, in particolar modo, è cercare di capire che cosa tiene in piedi una narrazione, quali sono gli elementi che distinguono una storia che funziona da una storia che non funziona.

Uno di questi elementi è il dettaglio. Mi interessa molto perché molte volte è proprio attraverso un dettaglio che il lettore riesce ad accedere a ciò che non è raccontato in modo esplicito, che appartiene al non detto. Per me è il massimo quando riesco a comprendere qualcosa del carattere di un personaggio da un gesto, dalle scelte che decide di compiere e dalle strade che invece no, non vuole proprio percorrere. A volte mi basta anche solo il modo in cui l’autore mostra come reagisce un personaggio messo di fronte a una difficoltà o a un conflitto interiore. Per provare a spiegare cosa intendo ho scelto due racconti – uno di Ernest Hemingway e uno di Beppe Fenoglio – in cui un dettaglio (curiosamente lo stesso: la schiena di un padre) produce proprio quel meccanismo che permette per un attimo di sollevare il velo e mostrare quel qualcosa di più che appartiene al territorio del non detto.
Schiena #1: Il dottore e la moglie del dottore di Ernest Hemingway
Nel racconto – inteso come forma letteraria – non c’è spazio per il superfluo. Pertanto ogni dettaglio deve essere calibrato al millimetro. Questo vale ad esempio per definire il carattere di un personaggio o per creare un ponte tra ciò che viene letteralmente raccontato e quello che è possibile intravedere soltanto tra le righe. Su quest’ultimo punto il riferimento chiaro è Ernest Hemingway e il suo principio dell’iceberg:
Se un prosatore sa bene di che cosa sta scrivendo, può omettere le cose che sa, e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanza verità, può avere la sensazione di esse con la stessa forza che se lo scrittore le avesse descritte. Il movimento dignitoso di un iceberg è dovuto al fatto che soltanto un ottavo della sua mole sporge dall’acqua.[2]
Hemingway era un vero e proprio maestro dell’arte del dettaglio. In molti suoi racconti è proprio da un particolare che si riesce a intuire quella verità che ha spinto l’autore americano a scrivere proprio quella storia. Paolo Cognetti, nel suo A pesca nelle pozze più profonde, parlando di Hemingway e del principio dell’iceberg, tra i vari esempi, fa riferimento al primo racconto della serie di Nick Adams, Il dottore e la moglie del dottore:
Siamo nel 1910 o giù di lì: in una casa sul lago Michigan, un medico bianco chiede a un indiano che gli deve un favore (il medico ha curato la sua squaw da una polmonite) di venire a spaccare dei tronchi portati dalla corrente. È legname di qualche segheria, che si è staccato dal vaporetto durante il trasporto e probabilmente nessuno verrà più a reclamare. Il medico dà per scontato di poterlo usare come legna da ardere. Ma l’indiano, che è un pigro, rissoso ubriacone, non ha nessuna voglia di saldare il suo debito, pulisce uno dei tronchi dalla sabbia e osserva il marchio della segheria stampato a fuoco, poi lo mostra ai suoi compagni e al medico per ricordargli che anche lui, pur credendosi un grand’uomo, quando nessuno lo vede è un ladro come tutti gli altri. L’indiano ci ride su. Il medico invece s’infuria. Litigano, per poco non fanno a botte. Infine il medico lo manda via e torna verso casa con un passo nervoso («si vedeva dalla schiena che era arrabbiatissimo»). Per calmarsi si mette a pulire il suo fucile, ha una breve discussione con la moglie sulla necessità di dominare il proprio spirito, se ne va con il figlio Nick a cacciare scoiattoli.[3]
Cognetti, nella sua analisi aggiunge che:
sono i gesti che in un racconto illuminano di colpo un personaggio. […] Bastano poche cose in un racconto per sollevare domande fondamentali: come ci comportiamo quando veniamo messi di fronte alle nostre bugie? E se, per di più, ci consideriamo onesti e generosi, e a smascherarci è qualcuno che disprezziamo? Le nostre reazioni agli imprevisti, per quanto minimi, rivelano qualcosa della nostra natura, suggeriscono pezzi del nostro passato e gettano ombre sul nostro futuro.[4]
L’immagine della schiena del protagonista fremente d’ira descrive un mondo: «se davanti a una vergogna il padre di Nick gira i tacchi e va a pulire il fucile» scrive ancora Cognetti «che cosa farà quando gli sarà impossibile voltare le spalle, o la vergogna sarà troppo grande da sopportare?»[5]. È questa la storia sotterranea che si intravede tra le righe, la parte sommersa dell’iceberg. La schiena del dottore è la fotografia attraverso cui il lettore è proiettato verso quella realtà più ampia di cui parlava Julio Cortázar in Alcuni aspetti del racconto.
Schiena #2: Il gorgo di Beppe Fenoglio
Credo che Beppe Fenoglio rientri a pieno diritto tra gli specialisti dell’incipit. I suoi romanzi e racconti regalano degli esempi cristallini di come si catturi l’attenzione del lettore e la si trascini all’interno della storia. Sono incipit che anticipano sempre un elemento fondamentale nell’economia del testo, quell’elemento che il lettore sa benissimo che costituirà il cuore della narrazione. Ad esempio: «Pioveva su tutte le Langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sotto terra» (La malora); oppure: «Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta» (Un giorno di fuoco); o ancora: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944» (I ventitré giorni della città di Alba).
Non fa eccezione un racconto un po’ meno conosciuto di Fenoglio, ma che personalmente trovo tra i migliori della letteratura italiana, almeno per la nitidezza con cui rappresenta in sole due pagine la profondità del legame tra un padre e un figlio. Si tratta de Il gorgo, un testo pubblicato per la prima volta nel 1954 sulla rivista letteraria Il caffè.
Il gorgo è un racconto che ricalca le atmosfere de La malora. L’ambientazione è ancora quella delle Langhe; c’è una situazione di profonda miseria. La storia è narrata dal punto di vista del figlio più piccolo di una famiglia di contadini. Ha un fratello maggiore «a far la guerra d’Abissinia»[6] di cui non si ricevono più lettere o notizie da tempo e una sorella gravemente malata. Per quanto riguarda la ragazza nessun medico dei paesi lì attorno è riuscito a capire di cosa sia malata e le cure che sono state tentate, oltre che inutili, stanno mettendo a dura prova le esigue risorse economiche e la forza morale di tutta la famiglia. Un giorno il padre del bambino, il capo-famiglia, provato dalla situazione che è sempre più insostenibile, decide di farla finita gettandosi nel fiume Belbo. Il racconto parte proprio da qui, e nel migliore stile fenogliano si apre con un incipit tagliente:
Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo.[7]
L’inquietudine del bambino sembra nascere da una frase pronunciata dal padre, incongrua per il momento che sta vivendo la famiglia: «Scendo fino al Belbo, a voltare quelle fascine che m’hanno preso la pioggia»[8]. Il bambino capisce di essere l’unico ad aver capito che qualcosa non torna: nessuno in famiglia si scompone. Neanche la madre che «seguitò a pulire il paiolo, e sì che conosceva il suo uomo come se fosse il primo dei suoi figli»[9] dice qualcosa. Solo il bambino s’inquieta, eppure non sa spiegare che cosa gli abbia davvero fatto intuire l’intenzione suicida di suo padre. Ma non dà l’allarme, quando il padre esce di casa e prende il forcone, il bambino si limita a seguirlo come un’ombra.
Da quel momento in poi, Fenoglio mette in scena una battaglia tra padre e figlio, fatta di gesti, silenzi e sguardi. Tutto si consuma nel percorso dalla casa al fiume. La discesa fino alla riva del Belbo è brusca, quasi una corsa. Ma poco prima della meta lo scontro esplode: il padre si volta e tenta di cacciare il figlio con il forcone. Questo è un gesto duro, che rivela le intenzioni suicide.
Non posso dire che faccia avesse, perché guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita dal petto, e soprattutto perché non mi sentivo di alzargli gli occhi in faccia, per la vergogna di vederlo come nudo.[10]
Il bambino non demorde, appena il padre ricomincia la sua discesa verso il fiume, lui riprende ad andargli dietro. Infine, arrivano entrambi nello spiazzo su cui sono depositate le fascine. Ma il padre non le guarda, fissa soltanto il gorgo. È qui che la schiena del padre assume un ruolo chiave nel racconto: non è citata direttamente, ma si capisce che il bambino la sta fissando e da lì intuisce l’imminenza della morte.
Il gorgo era subito lì, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle d’un serpente. Mio padre, la sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il petto per urlare. In quell’attimo lui ficcò il forcone nella prima fascina. E le voltò tutte, ma con una lentezza infinita, come se sognasse. E quando l’ebbe voltate tutte, tirò un sospiro tale che si allungò d’un palmo. Poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che rincasava da una festa con una sbronza fina.[11]
L’urlo del bambino ha prodotto una svolta. Sentendolo il padre è richiamato alla vita: è come se realizzasse solo in quel momento di avere una moglie e altri figli che stanno bene e che hanno bisogno di lui. Ed è proprio questo ciò che conta di più, nonostante tutte le difficoltà. Ma Fenoglio non spende parole per raccontarlo direttamente, preferisce mostrarlo. Ciò che ha scritto Cognetti per il racconto di Hemingway, vale qui per Fenoglio: l’autore si affida ai «gesti che illuminano di colpo un personaggio». Il finale regala ancora un gesto, ultimo, forse risolutivo:
Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo.[12]
[1] James Wood, Come funzionano i romanzi, Edizione Mondolibri su licenza Mondadori, 2010
[2] Ernest Hemingway, Morte nel pomeriggio, Mondadori, 2011
[3] Paolo Cognetti, A pesca nelle pozze più profonde, Minimum fax, 2014
[4] Paolo Cognetti, A pesca nelle pozze più profonde, Minimum fax, 2014
[5] Paolo Cognetti, A pesca nelle pozze più profonde, Minimum fax, 2014
[6] Beppe Fenoglio, “Il gorgo” in Romanzi e racconti, Einaudi, 2001
[7] Beppe Fenoglio, “Il gorgo” in Romanzi e racconti, Einaudi, 2001
[8] Beppe Fenoglio, “Il gorgo” in Romanzi e racconti, Einaudi, 2001
[9] Beppe Fenoglio, “Il gorgo” in Romanzi e racconti, Einaudi, 2001
[10] Beppe Fenoglio, “Il gorgo” in Romanzi e racconti, Einaudi, 2001
[11] Beppe Fenoglio, “Il gorgo” in Romanzi e racconti, Einaudi, 2001
[12] Beppe Fenoglio, “Il gorgo” in Romanzi e racconti, Einaudi, 2001
Bello! Grazie soprattutto per avermi fatto ricordare di fenoglio… Questo racconto e potente. Hemingway e sempre un gran maestro. E il libro di cognetti che ho letto con estremo interesse è un piccolo prezioso “manuale” scritto con cuore e intelligenza, un gioiellino per chi ama i racconti e l’arte di scriverli con intensità e densità di sguardo su poche fondamentali cose
Grazie Angelo! Sì “Il gorgo” è un racconto molto potente, per me è uno dei migliori di Beppe Fenoglio con “Un giorno di fuoco”. 🙂