Guareschi, ridere di noi

Sono ormai quasi due anni da quando feci il più strano degli incontri. Mi ero concesso, ospite di un generoso amico, un fine settimana in Alto Adige: la birra, canederli pieni di burro, lunghissime passeggiate nei boschi e sotto le guglie delle dolomiti di Funes. E proprio prima di iniziare una camminata, bevendo il caffè in un piccolo bar all’attacco del sentiero, l’occhio cadde su un volantino in tedesco, che promuoveva uno spettacolo teatrale organizzato da una associazione culturale locale della Villnößtal. Don Camillo und Peppone recitava il titolo, Komödie von Gerold Theobalt nach dem Roman von Giovannino Guareschi specificava doverosamente il sottotitolo. Mi sembrò così fuori luogo ritrovare un prete e un sindaco della Bassa tra le montagne tirolesi, e magari pensare di sentirli parlare senza il loro accento emiliano.

I film in bianco e nero con il duo Fernandel-Cervi fanno parte della mia infanzia: appuntamento scontato all’ennesima replica su Rete 4 per tutta la famiglia, i personaggi di Don Camillo e Peppone erano un divertimento assicurato con la loro comicità fisica e diretta; agli scappellotti, alle bastonate e agli inseguimenti corrispondevano sempre velenosissimi scambi di battute taglienti. Ancora oggi non resisto alla tentazione di rivederli, nonostante sappia a memoria le battute, e non solo perché mi ricordano l’infanzia. Con il tempo mi sono accorto che per una parte di famiglia questi film erano qualcosa di più: erano sostanzialmente la rappresentazione fisica dei loro riferimenti morali, una famiglia tra i cui detti memorabili spicca il proverbio: «Al puseé bùn dii rùss aa sgiacà sò pà ‘ndal pùss1». Questi miei vecchi che dicevano i proverbi in brianzolo io non li ho più, ma come Nora Krug in Heimat non riesco a non cercare dietro di me una definizione della mia identità, anche in opposizione a chi è venuto prima di me per aprirmi la strada. Capire le loro ragioni, il loro mondo, per provare a orientarmi nel mio.

Riflettendo un po’ meglio quel volantino non era così fuori posto: i personaggi di Guareschi hanno e continuano ad avere una diffusione vasta all’estero (almeno nei paesi che non erano nel Patto di Varsavia immagino) e la loro dialettica schietta e manesca deve ricordare qualcosa anche tra le valli dove si parla tedesco e dove il benessere economico della provincia autonoma non può sopire completamente scontri e incontri vecchi ormai più di cent’anni.

Per chi avesse avuto una infanzia diversa dalla mia, si rifiutasse di guardare Rete 4 per comprensibilissime ragioni di principio, o fosse vissuto in una caverna negli ultimi 60 anni, presentiamo brevemente la situazione narrativa: secondo dopoguerra italiano, Emilia, lungo le rive del Po in quella che viene ancora oggi chiamata “La Bassa” in contrapposizione alle colline che salgono verso gli Appennini. Don Camillo, prete di campagna a cui piace fumare sigari, bere vino e menare le mani; Giuseppe Bottazzi detto Peppone, capo dei “rossi” e anche sindaco del paese, meccanico, grosso manesco e baffuto. Tra i due, una rivalità politica che non risparmia colpi bassissimi, una stima reciproca che trascende la loro rivalità e un Cristo parlante che elargisce neutralmente saggezza. Dietro e dentro tutti costoro Giovannino Guareschi.

Nato il 1° maggio 1906 in provincia di Parma, Giovannino è il tipico personaggio bigger than life: nonostante il diminutivo nel nome è un omone gigantesco, occhi che fulminano sopra due foltissimi baffi. Nella sua vita è stato scrittore, editore, giornalista e vignettista, molte di queste cose contemporaneamente, tutte con profitto. Già durante l’epoca fascista emerge il suo talento umorista e scrive sul Bertoldo, che dopo la fine della guerra si trasformerà in Candido. Viene richiamato alle armi dalla Repubblica sociale ma si rifiuta di combattere per un governo non riconosciuto dal Re d’Italia, viene deportato come migliaia di altri soldati italiani dopo l’8 settembre. Sopravvive, torna in Italia e diventa, monarchico, un fierissimo anticomunista, senza però risparmiare, dalle pagine del suo giornale, di proprietà di Rizzoli, bordate alla Democrazia Cristiana, che pure aveva sostenuto contro il maggior pericolo rosso. Finirà persino in carcere per aver pubblicato documenti diffamatori nei confronti di Alcide De Gasperi.

Era un’epoca diversa dalla nostra: i racconti prima si scrivevano e pubblicavano (sui giornali, sulle riviste, sui settimanali, insomma dovunque ci fosse un po’ di spazio da riempire) e poi se si vedeva che erano piaciuti magari si potevano rivedere e raccogliere in volume. Questo è quello che è accaduto con le storie del Mondo Piccolo, la prima pubblicata sul Candido il 28 dicembre 1946: in Italia la guerra è finita ma la Costituzione entrerà in vigore l’anno dopo, i comunisti hanno partecipato (in netta maggioranza) alla Liberazione dal nazifascismo, ma non tutti hanno restituito le armi in attesa di una eventuale rivoluzione, mentre però partecipano alla costituente e alla costruzione della Repubblica. Nel 1948 viene pubblicato Mondo Piccolo. Don Camillo, a giugno dello stesso anno i sovietici bloccano Berlino Ovest e il mese dopo Togliatti subisce un attentato. Come spesso in Italia, la tragedia si trasforma in farsa e Gino Bartali vince il Giro d’Italia il giorno dopo: tutti per lo meno si distraggono un po’ ma il clima è quanto meno frizzantino. La possibilità che ci sia una nuova guerra civile, un colpo di stato o una rivoluzione all’epoca non era così scontata. Ci è andata bene.

La pubblicazione dei racconti, prima su Candido e poi in volume, prima di essere a volte trasposti sul grande schermo, prosegue fin oltre la morte dell’autore, nel 1968, ma il contesto e l’ambientazione del nucleo originario dei racconti è quello del primissimo dopoguerra, si discutono gli articoli della nuova Costituzione e si sistemano gli affari lasciati a metà durante la guerra. Peppone il sindaco e i suoi compagni, nel giro di poche pagine sono responsabili di: aver nascosto un arsenale di armi ed esplosivi in una vecchia cascina, aver distrutto la proprietà privata di un agrario che non voleva pagare dei braccianti per i lavori pubblici, aver avuto la tentazione di ammazzare a colpi di mitra un fascista liberato grazie all’amnistia (voluta da Togliatti, n.d.a.). Nei racconti di Guareschi dove non compare il duo la situazione è anche più tesa: il racconto Noi del Boscaccio, costruito sui figli di un agrario che ingannano il padre con il racconto sempre più inverosimile delle vittoria di Italia e Germania, si conclude con lo stridente contrasto del trionfo sugli Alleati e lo spirare felice del padre, mentre una banda di comunisti gli sta incendiando il fienile. Il mondo di Guareschi è un mondo violento: ha attraversato due Guerre Mondiali, ha visto di persona quando possono essere tremendi gli esseri umani l’uno con l’altro. È un mondo ideologico.

L’antagonista, Don Camillo, non è da meno: inganna, mente, ruba, ma soprattutto mena le mani, usa il bastone, a volte direttamente una panca o il fucile, per rimettere ragione nei suoi parrocchiani rossi, per sventare oppure ottenere un vantaggio dai piani dei suoi avversari. Eppure ogni disputa si risolve con discreta soddisfazione di entrambi e senza (a parte rari casi) spargimenti di sangue: Don Camillo ha dato fuoco all’arsenale segreto dei rossi? Alla fine Peppone si è liberato di un bel peso sulla coscienza. I comunisti hanno nascosto dieci milioni razziati dai tedeschi e ci vogliono costruire la Casa del Popolo? Ci si può sempre accordare e in Parrocchia ci sono sempre lavori da fare. Quello che esce è un ritratto impietoso degli italiani: attaccati al proprio interesse, intriganti, codardi, litigiosi, truffaldini. Eppure sembra che ogni cosa la vogliano fare a fin di bene, anche se il bene è il proprio ed è soltanto godersi uno dei piccoli piaceri della vita, o avere il gusto di fare un bel colpo al mio nemico. Sopra di essi un Cristo moralizzatore e assolutore, che dovrebbe, e così viene presentato nell’introduzione, in maniera neutrale. Però è solo con Don Camillo che il Crocefisso parla, certo rimproverandolo e castigandolo, ma è sempre comunque chiaro che a Peppone lui non parla.

Un mondo di grossi uomini con le mani grosse che usano grossi bastoni sulle loro grosse teste. Anche Giovannino è grosso, e prima di prendere Gino Cervi avrebbe dovuto interpretare lui Peppone nei film. Lo sostituirono perché non riuscivano a spiegargli che le sberle al cinema non le danno per davvero. E di uomini grossi sono disseminati i suoi racconti, padri, padroni o proletari, tutti enormi, violenti e bestemmiatori, che fanno guarire i figli dalla febbre minacciando il prete se non prega a sufficienza. Un mondo calato nella realtà della cronaca di quegli anni eppure che sembra un’Arcadia così bucolica e irreale, un mondo dove i dissidi sulle galline sono risolti grazie a un Cristo parlante. Il Mondo Piccolo di Guareschi è un mondo inventato, e al tempo stesso un mondo reale, che può condividere un piccolo spazio dignitoso vicino alla Macondo di Marquez, aspirando a qualcosa di più universale.

Sono passati quasi ottanta anni da quando è finita la guerra, trenta da quando è caduto il Muro di Berlino. Mentre in Italia ancora si fatica ad affrontare il nostro passato e le nostre responsabilità, il piccolo mondo di Don Camillo e Peppone è ancora lì dove il Po scorre ancora placido, che continua ad essere capito, non importa la lingua in cui viene raccontato. Ci dice qualcosa di noi e di come vorremmo essere, ma di come veramente siamo.

  1. “Il più buono dei rossi ha buttato suo padre nel pozzo” e con rossi si intendono, ovviamente, i comunisti
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