di Alessandro Busi
Succede questo, che ci guardiamo e non ci piacciamo. Succede che nasciamo, cresciamo e costruiamo nelle relazioni lo sguardo che sarà nostro, non solo perché ognuno nel momento in cui viene al mondo acquisisce uno sguardo peculiare, ma anche perché quello sguardo diventa il nostro preciso modo di mescolare gli sguardi degli altri. Così impariamo a vedere e vederci; fidarci e stare all’erta; distinguerci e omologarci; giudicarci, assolverci e condannarci.

Succede che un bambino si siede accanto al proprio compagno di classe e scopre che il suo corpo è diverso, il suo naso è diverso, i suoi occhi, la sua bocca. Succede che quel bambino si chiede: chi è sbagliato? Chi è giusto?
Succede che quelle domande può portarsele dentro tutta la vita e può ridurle ed espanderle. Magari, crescendo, non sarà più il rossore delle guance a far sentire inadeguata quella persona, ma il campo di gioco potrebbe spostarsi nel lavoro, nelle relazioni sentimentali, nei soldi… Di fatto, però, il filo di quelle due domande – Chi è sbagliato? Chi è giusto? – continua a correre lungo la sua biografia.
Nel saggio Possiamo salvare il mondo, prima di cena Jonathan Safran Foer cita un vecchio detto ebraico che recita più o meno così:
C’era un uomo a cui le cose andavano così bene che su di lui non c’era nessuna storia da raccontare.
Bello, no? Bello. Ma starci dentro è cosa diversa.
Tutti sappiamo che senza dolore e delusione non cresceremmo, non capiremmo, non faremmo esperienza del mondo, perché è nella delusione delle nostre aspettative che le possiamo modificare, rinegoziarne il rapporto con la vita che ci circonda, arrivando a poter dare chine nuove alla nostra biografia1, ma.
Ma un conto è saperlo e un conto è viverlo: viverlo significa vivere il dolore. Ed ecco una delle ragioni del desiderio di prima, delle due domande di prima: se io capisco cosa è giusto e cosa è sbagliato, allora potrò seguire sempre la via giusta ed evitare.
Evitare cosa? Critiche, per esempio. Colpe, vergogna, sensazione di non essere all’altezza… Ma a quale costo? Il costo è alto perché quel desiderio di essere nel giusto rischia di diventare una gabbia nella quale, come falene alla ricerca della luce perfetta, continuiamo ad andare a sbattere contro lucenti finestre chiuse, incolpandoci pure di averlo fatto.
C’è questa scrittrice messicana – Guadalupe Nettel2 – che ha un occhio fermo (oddio, non sono sicuro sia proprio fermo, ma di certo lo è rispetto all’altro). Durante la presentazione della sua raccolta di racconti Petali al Salone del Libro di Torino del 2018 aveva anche spiegato la ragione medica, ma non la ricordo. Quello che ricordo, invece, è ciò che disse poi.
Spiegò che quell’occhio era stato l’inizio della sua scrittura, perché quella diversità esplicitata dal corpo l’aveva costretta a fare i conti fin da piccola con il rapporto con gli altri, i loro giudizi e sguardi, con la loro e propria delusione; le aveva fatto crescere delle antenne ultrasensibili atte a captare cosa l’altro pensasse ma non dicesse. Crescendo, aveva così iniziato a farsi anche altre domande oltre a Sono sbagliata? e Come mi vedono gli altri?, per esempio: E gli altri cos’hanno di strano?
Fu lì, nella ricerca della stranezza dell’altro che lo specchio, talvolta deformante, che il mondo le rimandava, si incrinò. Gli altri smisero di essere un corpo unico di giudizi, ma diventarono persone singole, ognuna con delle proprie peculiarità, o stramberie che dir si voglia. Il mondo non si divideva più in giusti e sbagliati, ma si arricchiva di complessità.
E attorno a sé la Nettel poté iniziare a sentire che a nessuno le cose andavano così bene…, quindi c’erano un sacco di storie da raccontare.
Questa è la poetica che ritroviamo nelle raccolte Bestiario sentimentale e Petali: racconti brevi che illuminano porzioni della vita quotidiana dei personaggi, e ce ne mostrano le piccole incrinature, per mettere fuori asse il mondo. L’ordine delle cose però ci viene restituito dagli animali, nel caso del Bestiario, e dalle piante, nel caso di Petali, dove bestie e piante servono proprio a spostare il lettore verso una visione sistemica, in cui gli errori diventano il miglior compromesso possibile. Non è forse questo che fa la natura: muoversi per compromessi di compromessi di compromessi, verso un’imperfezione vitale? E perché noi esseri umani non dovremmo fare altrettanto nelle nostre vite?
Ecco allora la severa maternità di una gatta d’appartamento (Felina), oppure l’amore che esplode nell’intimo fastidio di un fungo pubico (Funghi). Ecco le piante rampicanti, che hanno bisogno di sostegno per esistere, e i cactus che pur di tenere lontani gli altri hanno sviluppato gli aculei, e allora: come sono io? Più rampicante, o più cactus? (Bonsai) Ecco i personaggi che si spiano dalle finestre dei condomini (Transpersiana) e quelli che scendono a patti con gli scarafaggi (Guerra nell’immondizia) e quelli che si fanno sistemare le palpebre e aggiustano tutto e rovinano tutto (Ptosi).
Ecco quindi la poetica di un’autrice che dovremmo leggere per litigare e fare pace per davvero con il mondo – dove fare pace per davvero vuol forse dire continuare a litigarci e continuare a farci pace per poi litigarci ancora -, che si riassume in poche righe, nelle parole della protagonista de La vita matrimoniale dei pesci rossi, racconto con cui si apre Bestiario sentimentale: «Sono una specie di specchio che riflette emozioni o comportamenti celati che non abbiamo il coraggio di vedere». Il soggetto della frase è gli animali con cui conviviamo, ma noi possiamo sostituirlo con I racconti di Guadalupe Nettel.
- La questione del rapporto fra aspettative e mondo e aspettative e mondo… è ben approfondita nella Psicologia dei Costrutti Personali. Per i non addetti ai lavori, una lettura interessante in commercio è: Castiglioni, M., Faccio, E. (2010). Costruttivismi in psicologia clinica. Teorie, metodi e ricerche. Utet Università De Agostini, Novara.
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Nell’articolo scrivo delle due raccolte di racconti della Nettel, ma segnalo che proprio a inizio settembre 2020 è uscito, sempre per La Nuova Frontiera (casa editrice anche dei racconti), il suo ultimo romanzo La figlia unica.
I precedenti romanzi furono pubblicati in Italia da Einaudi, ma, nonostante il grande successo dell’autrice in Sudamerica – la Nettel fu inclusa nel progetto Bogotà, ovvero una selezione dei migliori 39 autori under 40 dell’America Latina – in Italia non sfondarono.