Giorgio Bassani scrive da una posizione ben precisa: «dall’alto, e in qualche modo da fuori del tempo»[1]. Da un luogo in cui tutto è già stato, tutte le conseguenze si sono già verificate e tutti i personaggi, al pari del loro creatore, hanno avuto modo di soppesare, assorbire, interpretare e giudicare. C’è una quiete apparente. Come nel risveglio che segue l’incubo.

Come ne Il giardino dei Finzi-Contini, libro meno noioso di quanto in genere si dica nelle scuole italiane, anche nelle Cinque storie ferraresi, scritte e riscritte più volte nel corso dei decenni fino al loro inglobamento nel Romanzo di Ferrara, siamo presi per mano da un narratore che ha visto e vissuto tutto e che per questo si prende la libertà di tirare le somme.
Pensando alla sua di storia, Bassani non avrebbe forse potuto fare altrimenti. Appartenendo lui stesso a quella comunità israelitica di provincia ricreata nei suoi racconti, Bassani pare ossessionato dal vissuto dei suoi personaggi e narra le loro vicende con l’ostinazione e la completezza di chi sente di dover descrivere e documentare tutto perché sa “cosa è successo dopo”, nel periodo tra la fine degli anni Venti e l’immediato dopoguerra, l’arco temporale in cui si svolge quasi tutta la sua opera narrativa. È un narratore che torna e ritorna sulle cose, interroga e si interroga chiedendo implicitamente al lettore di prendere posizione o, almeno, di riflettere:
Ebbene, considerando i risultati, quale dei due aveva avuto ragione, nella vita?. (Gli ultimi anni di Clelia Trotti).
Con la sua sintassi complessa e ricca, piena di incisi e frasi tra parentesi quasi abbia scrupolo di puntualizzare, Bassani sembra planare su un’intera fase storica con una poetica quasi cinematografica. Spesso partendo da una immagine, da una vecchia cartolina, da una semplice fotografia mentale.
Plana su quei due decenni di storia in cui un intero Paese cambiò orizzonte, valori e confini, attraversò una tragedia immane e poi si riprese ricominciando a mettere in scena, nelle grandi città piene di macerie così come nei piccoli paesini di provincia, i suoi piccoli riti quotidiani. Un dopoguerra in cui, come leggiamo in Una notte del ’43, vittime e carnefici si ritrovarono attorno ai tavolini dello stesso bar facendo quasi finta che non fosse successo niente, che proprio di fronte a quel Caffè del centro di Ferrara non fossero mai state fucilate undici persone per rappresaglia fascista o che quei duecento nomi scolpiti su una lastra di marmo a memoria degli ebrei deportati e mai più tornati non fossero mai esistiti. In barba ai debiti o ai crediti morali e umani di ciascuno.
La vita ricominciava, grazie a Dio. E quando ricomincia, si sa, non guarda mai in faccia a nessuno. (Una lapide in via Mazzini).

Ma forse per capire da dove arrivano e di cosa sono imbevute le Cinque storie ferraresi è utile fare un passo indietro e avere un po’ di contesto.
Giorgio Bassani esordisce come poeta alla fine degli anni ’40 e diventa in seguito direttore di diverse riviste entrando in contatto con autori di respiro internazionale. Le stesse Cinque storie ferraresi (ad eccezione di Lida Mantovani il cui primo abbozzo è del 1937) vengono pubblicate nel 1955 sul periodico culturale Botteghe Oscure, che lui dirige per un periodo. Esperienza che si affianca alla conduzione di Italia Nostra, la prima rivista ambientalista, e di Paragone, nella cui redazione conosce, tra gli altri, Pier Paolo Pasolini.
Si deve a Bassani la pubblicazione di autori difficili e raffinati come Dylan Thomas, Georges Bataille, W. H. Auden, Truman Capote, Carlo Cassola, Mario Soldati, Giorgio Caproni o dello stesso Calvino. E si deve sempre a lui, nella veste di consulente e poi di direttore editoriale della “Biblioteca di letteratura” di Feltrinelli (dal 1958 al 1963) la pubblicazione di Jorge Luis Borges, Karen Blixen, Edward Morgan Forster e di quell’immenso capolavoro che ancora oggi è Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (rifiutato da Vittorini) oltre che dell’allora controverso Il dottor Zivago di Boris Pasternak.
È insomma un uomo abituato al confronto delle riviste quello che vince il Premio Strega nel 1956 con Cinque storie ferraresi (ripubblicate nel frattempo da Einaudi) battendo tra gli altri Le parole sono pietre di Carlo Levi, una piccola pietra miliare del genere del reportage di denuncia.
Quel 1956, insieme al precedente, è un anno difficile. L’invasione dell’Ungheria da parte dei sovietici e lo scioglimento del Cominform, che dal 1947 aveva riunito i partiti comunisti, segnano uno spartiacque traumatico per tutta l’editoria e l’ambiente intellettuale italiano. Le tradizionali riunioni editoriali del “mercoledì” all’Einaudi diventano molto tese.
Il mondo sta cambiando. In televisione c’è Lascia o raddoppia con un giovanotto dal nome strano, Mike Buongiorno, in una miniera di carbone a Marcinelle muoiono 136 operai italiani e la Corte Costituzionale italiana si riunisce per la prima volta mentre dall’altra parte dell’oceano un’altra Corte, quella Suprema degli Stati Uniti, dichiara incostituzionale la segregazione razziale sugli autobus pubblici e la Francia riconosce l’indipendenza alla Tunisia e al Marocco.
Il mondo si muove a grandi scossoni così come, a suo modo, si muove la piccola provincia italiana. Nella voce e nella Ferrara di Bassani, avamposto di quella provincia, c’è quiete apparente ma c’è anche la pressione di tensioni storiche e politiche ancora tutte da sciogliere. C’è un clima di perenne resa dei conti che proprio per questo non è mai risolutiva.

La città emiliana diventa uno spazio di rievocazione e di conoscenza. Tra Corso Giovecca, Via Salinguerra, il Teatro Comunale, Pizza della Certosa, Via Mazzini e lungo i bastioni o ai tavolini del Caffè della Borsa si cerca un nuovo faticoso equilibrio mentre si tenta di districare una matassa fatta di colpa, ignavia e tragedia.
Vennero da ultimo la Liberazione e la pace, e per molti ferraresi, per quasi tutti, l’ansia improvvisa di dimenticare. Ma si può dimenticare? È sufficiente desiderarlo? (…) Tutti al pari di lui erano stati più o meno fascisti: e nessun verdetto di tribunale sarebbe mai riuscito a cancellare una verità come questa. (Una notte del ’43).
Basta quel «Tutti al pari di lui erano stati più o meno fascisti» per scorgere il narratore Bassani. Si vede l’ansia di un presente ancora da risolvere mescolata all’amarezza di aver realizzato cos’è davvero la libertà. Non un concetto assoluto come forse si poteva legittimamente pensare prima delle leggi razziali, della guerra, delle soffiate all’OVRA o dei repubblichini di Salò, ma qualcosa che si ridefinisce nel corso delle epoche e che dipende da ciò che di volta in volta è accettato o non accettato da una comunità.
È il gigantesco e orribile risveglio contenuto in Una lapide in via Mazzini, un racconto che inizia con una situazione anomala, un ebreo dato per morto che ricompare improvvisamente a Ferrara da Buchenwald, e che poi prosegue in un crescendo di stupore e angoscia costruito magistralmente da Bassani. Pagina dopo pagina si assiste ad un rovesciamento completo di prospettiva. Il giovane protagonista e “tutti gli altri” non si trovano mai sullo stesso piano esistenziale e nel frattempo Bassani conduce il gioco. Porta il lettore in una direzione, lo persuade della giustezza di un giudizio (in fondo tutti possiamo sbagliare…) e poi lo sorprende con un finale che prende allo stomaco.
Bassani sembra dirci “è ciò che succede quando si crede in un’ideale che pensavi scontato. Quando scopri che non è vero allo stesso modo anche per tutti gli altri, ci puoi rimanere secco e pagare un prezzo altissimo”. Un’ideale di libertà (tradita) che forse è quasi come l’amore pensato da Ausilia, un personaggio apparentemente secondario che incontriamo nel bellissimo racconto La passeggiata prima di sera:
L’amore è un’altra cosa – pensava Ausilia -: nessuno meglio di lei poteva saperlo. Era qualcosa di crudele, di atroce, da spiare di lontano; o da sognare a palpebre abbassate.
[1] La passeggiata prima di cena