«La parabola dei ciechi» di Gert Hofmann

Il rapporto tra letteratura e arti figurative non è una novità qui su Tre racconti. Linda Scapigliati ne aveva scritto in relazione al racconto Nel museo di Reims di Daniele Del Giudice. Non parlerò nel dettaglio di questo racconto, ma ciò da cui voglio partire è un aspetto che ho incontrato nel testo di Del Giudice e che ho ritrovato nella lettura della Parabola dei ciechi di Gert Hofmann.

Mi spiego meglio: sia il racconto di Del Giudice che il racconto di Hofmann sono costruiti a forma di triangolo in cui i vertici sono la scrittura, il tema della cecità e un’opera pittorica. Da qui la domanda a cui cerco di rispondere in questa riflessione: come si può raccontare la cecità attraverso due arti come la letteratura e la pittura che non possono prescindere dal senso della vista?

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Ferrara, 2019. Mostra World Press Photo. Foto di Andrea Siviero.

Dell’arte di sottrarre un senso alla scrittura

È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura. Forse amare non è la parola giusta, perché nelle mie condizioni è difficile provare un sentimento verso qualcosa di fuori, e poi perché le mie condizioni già non mi permettono di vedere più bene, e dunque non posso dire con certezza che cosa amo, se i quadri che vado a vedere nei musei, o questo stesso andare a cercare, fin quando la vista non calerà del tutto.

Nel museo di Reims di Daniele Del Giudice comincia così, con la voce del narratore, Barnaba, un ex ufficiale di Marina che inizia a raccontare la sua progressiva perdita della vista e il suo rapporto con i quadri. O meglio: nello specifico Barnaba spiega il suo interesse per la ricerca, per l’esplorazione delle tele, almeno fino a quando gli sarà possibile. Si tratta di un incipit che mette subito in luce un aspetto comune a tutte le arti: la necessità di condurre una ricerca che nasce da un’intuizione e non smette mai di tormentare il “ricercatore”. Per il protagonista del racconto di Del Giudice tale ricerca si esaurirà nel momento in cui sopraggiungerà l’ombra a cancellare tutti i contorni del mondo; quando ogni oggetto o immagine sarà indistinguibile per via della malattia. Con la perdita della vista finirà per Barnaba la possibilità di continuare la ricerca, almeno quella in prima persona, e dovrà affidarsi a voci vicarie, voci come quella di Anne, altra protagonista del racconto di Del Giudice.

L’esaurimento definitivo della ricerca è quello determinato dalla morte dell’artista. Oltre non c’è più nulla e quello che rimane, quindi, è l’esame a posteriori del percorso artistico, ovvero i singoli passaggi della ricerca. Certo, ogni artista può portare avanti diverse ricerche nel corso della sua vita, tuttavia nessuna di queste ricerche si potrà dire sopita finché l’artista è in vita. Per definire con un’immagine il percorso di ricerca si potrebbe dire che si parte con il bianco di un’illuminazione e attraverso intuizioni successive e accumulo di capacità tecniche e informazioni l’artista non fa altro che rivelare un colore dopo l’altro, ora un’idea giallo canarino, ora una blu oltremare, finché la sottrazione di tutti i colori non conduce al nero.

Un grande esploratore delle superfici e del colore, un artista in cui anche il Barnaba del racconto di Del Giudice avrebbe trovato materia per alimentare la propria inquietudine o consolazione, è senz’altro Mark Rothko. Nella sua ricerca artistica il pittore statunitense di origine lettone ha progressivamente esplorato l’intera gamma dei colori. Come dotato di un prisma di cristallo, Rothko ha disperso la luce bianca per rivelare le componenti più intime dello spettro del visibile e quindi per affondare letteralmente 1 (e far affondare l’osservatore dei suoi dipinti) nel profondo dei colori e delle loro possibilità di accostamento. Infine, dopo aver esplorato pressoché l’intera gamma cromatica, la ricerca di Rothko si è esaurita nelle campiture di nero ospitate nella Rothko Chapel di Houston.

Ma se dalle tonalità scure della Rothko Chapel si esaurisce la ricerca di Mark Rothko, dai dettagli nerofumo di una pittura di Pieter Bruegel il Vecchio riemergono sei figure ansiose di raccontarsi e di dare nuova luce a una ricerca antica. Si tratta dei ciechi dipinti dal pittore fiammingo nel 1568 e che hanno trovato “voce” per mezzo della penna di Gert Hofmann, scrittore e drammaturgo tedesco.

Pubblicato nel 1985, La parabola dei ciechi è un racconto lungo che mette in scena l’omonimo dipinto di Bruegel il Vecchio. Attraverso le voci dei protagonisti, Gert Hofmann porta in letteratura «[…] un dipinto ridotto al telaio di un testo, un testo pelle e ossa come questo, che ride in preda al panico, in cui gli aggettivi appaiono come allucinazioni improvvise, colpiscono un cieco come sassi lanciati da ragazzini spaventati e violenti»2 per dirlo con le parole di Luciano Funetta, autore della prefazione dell’edizione italiana tradotta da Tiziana Prina e pubblicata da Racconti edizioni.

Il testo di Gert Hofmann, in effetti, esordisce proprio come un telaio, come uno spazio bianco in attesa di accogliere gli strumenti dell’artista. È un testo che nasce dall’ombra di uno spazio chiuso, che scopriamo presto essere un fienile nella campagna belga del Cinquecento in cui echeggiano dei rumori (un bussare, un battere) e una voce che si esprime con un noi. In quel noi sono compresi sette uomini (in seguito diventeranno sei) che sostengono di essere i ciechi che dovranno essere dipinti quel giorno dal pittore. In verità si scopre subito che quel noi è in realtà un io che si esprime per una collettività. È il portavoce, è uno dei ciechi del gruppo di cui non si saprà mai il nome, ma che tuttavia ci accompagnerà in un percorso picaresco verso la casa del pittore.

Nel giorno in cui dobbiamo essere dipinti – è già di nuovo un altro giorno! – ci strappa dal nostro sonno un bussare al portone del fienile. No, non è qualcosa che batte dentro di noi, viene da fuori, viene dagli altri.

Dall’incipit emerge subito un riferimento che nel corso del racconto diventerà fondamentale: gli “altri”. Gli altri sono coloro che vedono, le persone che dovrebbero aiutare i ciechi a raggiungere la casa del pittore e il luogo dove verranno ritratti, ma che non fanno altro che lasciare costantemente il gruppo di ciechi in balia di sé stessi. Salvo un caso, gli “altri” sono identificati attraverso l’azione che compiono (Chi-bussa/Chi-ha-bussato), attraverso l’età (il bambino) o attraverso un ruolo, come in una rappresentazione teatrale (il giardiniere, la serva, il pittore, il suo buon amico). I nomi di questi “altri”, dicevo, non li conosciamo come non li conoscono i ciechi. Il lettore, quindi, deve affidarsi alle descrizioni delle percezioni uditive, olfattive e tattili della voce narrante e dei suoi compagni. Si tratta di un’esperienza di lettura singolare, quindi, dove la vista, generalmente il senso principe delle narrazioni, il senso che mette maggiormente in relazione il mondo descritto sulla pagina con l’immaginazione del lettore, è subordinata agli altri sensi. È una narrazione che si potrebbe definire “corporea”, allora, una narrazione che necessita del continuo contatto con le cose, di urti, dolori, inciampi, cadute, per offrire le coordinate spaziali e temporali.

La parabola dei ciechi Pieter Bruegel Gert Hofmann

Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi. Olio su tela, cm 86×154. Napoli, Museo nazionale di Capodimonte.

I pochi elementi visivi della narrazione sono filtrati dai ricordi dei ciechi. Essi, infatti, affermano di non essere ciechi dalla nascita, ma diventati tali a causa delle cornacchie (o corvi, o taccole, o altri uccelli di cui neppure loro sono certi) che li hanno accecati o hanno cavato loro gli occhi. Questo è un elemento importante nell’economia narrativa del testo perché crea un’ambiguità e uno scostamento rispetto a ciò che è rappresentato nell’opera di Bruegel il Vecchio. Se nel quadro vi sono sei ciechi che, salvo il primo di cui non è visibile il volto, hanno perso la vista a causa di patologie oculari diverse, nel racconto di Hofmann tale dettaglio è sfumato e fa quasi pensare che almeno cinque dei sei ciechi abbiano subito un’enucleazione dei bulbi oculari (come nel caso del secondo cieco del quadro). Inoltre questo che può apparire un dettaglio di scarsa importanza assume valore se si considera la leggenda che circonda il momento in cui questi uomini hanno perso la vista:

Una sera d’estate, in cui faceva molto caldo e loro se ne stavano sotto un ciliegio, sono arrivati degli uccelli. Si sono appollaiati sulle loro spalle e con il becco gli hanno cavato gli occhi.

Tale storia potrebbe essere letta come una sorta di mito fondativo del gruppo, come una sorta di elemento identitario, che permette a ciechi di sentirsi parte di qualcosa dopo essere stati di fatto espulsi dalla società.

I dettagli che emergono dal tessuto narrativo servono a Gert Hofmann per guidare il lettore in una peregrinazione al buio. Sottraendo il senso della vista, Hofmann crea intorno ai suoi personaggi un vuoto in cui non ci si può orientare a meno che non si utilizzi la voce. Come i chirotteri, che per orientarsi nell’oscurità fanno affidamento all’ecolocalizzazione, i ciechi di Hofmann esplorano il mondo che li circonda le corde vocali sempre attive e l’orecchio teso verso le risposte degli “altri”. È un dialogo perpetuo, quello che offre al lettore la dimensione fisica del mondo attraversato dai ciechi e quando il dialogo è interrotto sono i fruscii, le grida, i cigolii, i suoni delle campane ad evocare bagliori di luce nell’oscurità.

Così vicino da toccare con gli occhi

Ormai posso vedere da vicino, soltanto da vicino, così da vicino che ciò che mi resta della vista sta diventando quasi una sensazione tattile. Per questo non ho potuto decidere di conservare per me come ultime le immagini di uomini e donne, perché non tutti, non sempre, si possono guardare così da vicino da toccarli con gli occhi.  

Barnaba, il protagonista del racconto di Daniele Del Giudice, non può più godere di una visione d’insieme dell’opera d’arte, ma solo dei suoi particolari. La poca vista che gli è rimasta lo costringe ad avvicinarsi, indugiare sui dettagli, perdersi nella speculazione intorno a una particolare scelta dell’artista, lasciarsi incantare dalle sirene, abbandonarsi alle congetture. La vista perde progressivamente il predominio sulla conoscenza del mondo a favore del tatto.

I ciechi di Hofmann, capaci di percepire solo il mondo che stabilisce un vivo contatto con i loro corpi, non fanno altro che dire “forse”, che tirare a indovinare. Ma questo atteggiamento non è lo stesso di Barnaba? E chi legge con attenzione un testo letterario, non è forse come i ciechi del racconto di Hofmann?

Attingendo alla sua esperienza come drammaturgo per il teatro e per la radio, Gert Hofmann riesce nel compito difficilissimo di restituire sulla pagina non tanto la descrizione iperfedele di un dipinto, quanto l’esperienza della fruizione dell’opera d’arte. Lo smarrimento dei ciechi, le indicazioni false, vaghe, imprecise che raccolgono attraverso le voci degli “altri” sono elementi comuni all’atto di fruizione dell’opera d’arte. In altre parole sono la dimensione narrativa della speculazione intorno al dettaglio.

La narrazione di Hofmann rende quindi il lettore partecipe dell’atto creativo nella misura in cui è restituita l’esperienza congetturale che accompagna l’osservazione particolari di un dipinto. Con gli occhi a pochi centimetri dalla tela ci si avvicina al dettaglio, ma si perde la visione complessiva. Tuttavia è solo con gli occhi a pochi centimetri dalla tela, quindi non distratti dal contesto generale, che si può accedere a un nuovo grado di esperienza, un grado di esperienza che permette la risonanza con il mistero dell’atto creativo, mistero che deve aver accompagnato la mano dell’artista nel momento della composizione dell’opera.

La fruizione dell’opera d’arte diventa un nuovo atto creativo, molto vicino a quello che ha generato l’opera stessa. L’artista ha creato l’opera; il fruitore, lasciandosi attraversare dalle suggestioni, abbandonandosi alle congetture, ricrea dentro di sé l’opera d’arte in una forma nuova, personale, ma altrettanto misteriosa. Ecco allora il ruolo del testo di Gert Hofmann: non uno strumento per comprendere meglio l’opera di Pieter Bruegel il Vecchio, ma lo specchio di una delle possibili esperienze di fruizione dell’opera stessa.

  1. Sulla suggestione di “affondare nei colori” suggerisco la lettura del racconto Naufragio con quadro, sempre di Daniele Del Giudice.
  2. Luciano Funetta, Il tempo e la caduta, introduzione alla Parabola dei ciechi di Gert Hofmann, Racconti edizioni, 2019.
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