Lorena Bruno, Luca Mignola e Alfredo Zucchi conversano intorno al metodo e alla struttura.
Due raccolte di racconti, seppure con strutture e urgenze diverse, dialogano tra loro affrontando temi come la memoria, il caso e l’ineluttabilità; l’elemento fantastico le percorre entrambe, come il sostrato letterario che accomuna gli autori, che non solo hanno fatto della ricerca una parte importante del proprio metodo, ma che non rinunciano a speculare su un genere, quando lo approcciano con la propria scrittura.
Ecco come nasce questo dialogo con Alfredo Zucchi, autore de La memoria dell’uguale (Polidoro Editore) e Luca Mignola, autore dei Racconti di Juarez del Sud (Wojtek Edizioni), uno scambio che diventa un discorso intorno alla teoria del racconto.

LORENA BRUNO: Il racconto è un ordine chiuso, disse Cortázar a una lezione, paragonandolo poi a una sfera. Cosa ne pensate? E poi vorrei chiedervi della vostra scelta: perché il racconto?
LUCA MIGNOLA: Quando Cortázar parla di ordine chiuso, si riferisce al dualismo forma chiusa (racconto) e forma aperta (romanzo), portando alla luce il nucleo di un problema più vasto che riguarda il posizionamento della voce rispetto ai fatti. Per voce intendo voce narrante, la quale non sempre corrisponde all’io del narratore, alla persona fisica che è rappresentata dallo scrittore. La voce è una costruzione, fa parte della struttura di una narrazione, al pari ad esempio dell’intreccio. Cortázar era molto sensibile al problema del modo di composizione di un racconto. In una lettera a Jean Barnabé del giugno 1959, si interroga sul modo in cui si possa superare la forma chiusa per addentrarsi «nel laboratorio centrale e lavorare […] sulla radice che prescinde da ogni ordine e sistema». La sua risposta riguarda l’abbandono di un metodo estetico per uno poetico, scelta in cui riecheggia Rimbaud, allo stesso modo in cui, in saggio molto tecnico (cioè poetico) di Ricardo Piglia, “Tesi sul racconto”, si rimanda al «cuore dell’immediatezza», anch’esso di rimbaudiana memoria, che sembra un altro modo di dire «radice che prescinde da ogni ordine e sistema». Che cosa intendono Cortázar e Piglia? Forse che il metodo estetico, che in qualche modo si rifà alla tradizione del racconto, cioè che imita un tipo di racconto divenuto o ritenuto classico (l’ombra di Poe, di cui Cortázar scrive una intensa biografia, guarda dall’alto lo scrittore come il corvo dell’omonimo racconto), può essere superato spostando l’attenzione dai fatti, cioè dall’intreccio, ai procedimenti di composizione (metodo poetico), complicando la struttura e rompendo con il finale classico (soprattutto con il colpo di scena, che va detto, di questi tempi fa vendere e rende anche più belli gli scrittori che lo usano, è un consiglio per chi usa il metodo estetico-imitativo). Uno studio sui metodi del finale, con un focus specifico sui racconti di Borges, è presente in Formas breves di Piglia, nel saggio “Nuevas tesis sobra el cuento”, in cui si legge, ad esempio: «il finale mostra un senso segreto che era rimasto cifrato e in qualche modo assente nella successione evidente dei fatti». Ripensando la struttura della chiusa, in un processo a ritroso, si può accedere al laboratorio centrale o al cuore dell’immediatezza, e sfondare la forma chiusa.
Perché il racconto? In quest’ultimo anno ho approfondito la conoscenza di quell’avanguardia della teoria letteraria che va sotto il nome di formalismo. Forse non è proprio corretto chiamarlo avanguardia, forse con questa parola si può definire soltanto il futurismo, sebbene tra formalismo e futurismo all’inizio non c’era molta differenza, come testimoniano Boris Ejchenbaum e Viktor Šklovskij, o per essere più precisi le teorie formaliste vennero accolte all’inizio dai futuristi, che diedero loro quella che oggi chiamiamo visibilità. Ma divago. Lo studio del formalismo mi ha aperto alla riflessione sulle forme, in maniera più approfondita, poiché quelle tesi di Piglia o il laboratorio centrale di Cortázar rimandano e non sono separate dallo studio di Šklovskij sull’intreccio o di Ejchenbaum sul modo in cui una certa tradizione orale condizioni la scrittura de “Il cappotto” di Gogol o della teoria dell’evoluzione letteraria nei saggi di Jurij Tynjanov. Dunque, perché il racconto? Perché non mi interessano i fatti in quanto tali, ma piuttosto la loro manipolazione con gli strumenti che si trovano nel laboratorio centrale.
ALFREDO ZUCCHI: Quando si è in due, si è almeno in tre. Poiché siamo in tre in questo dialogo, direi che siamo almeno in cinque a parlare (questo breve cappello è anche un esempio del principio formalista della messa a nudo del procedimento che Šklovskij teorizza nel suo saggio sul Tristram Shandy di Sterne in “Teoria della prosa”). Le parole di Luca delineano un percorso di ricerca condiviso, a cui mi sento solo di aggiungere due cose.
Da un lato, il dualismo implicito nella definizione di Cortázar riguarda un’opposizione fondamentale, che non riguarda solo le forme letterarie ma forse (sottolineo forse) il modo in cui lo sguardo umano osserva e ordina le cose del mondo.
Dall’altro, questo stesso dualismo, e il modo radicale in cui Cortázar lo ha svolto, nel passaggio dai suoi primi libri di racconti a Rayuela, rappresenta un caso molto interessante per chi si occupa di letteratura. Si tratta del passaggio dalla sfera perfetta (la macchina da guerra coesa) dei racconti al gioco sfondato e infinito del romanzo (letteralmente: al gioco letterario in cui la chiusa diventa impossibile). Ora, per Cortázar, il gioco infinito (la sottrazione del finale), avviene, nella forma estesa (il romanzo) precisamente attraverso la messa a nudo del procedimento (nelle parole di Piglia: fare dei problemi di costruzione del testo il tema stesso della narrazione), come se l’utilizzo di questo strumento fosse appannaggio unico e solo del romanzo. Quest’ultimo punto, come scrive Luca, è falso, cioè è impreciso. Conta, tuttavia, più che la sua precisione, il fatto che Cortázar lo abbia svolto con tanto rigore, arrivando a comporre e pubblicare dei testi esemplari (penso a Rayuela da un lato e a Tutti i fuochi il fuoco dall’altro), testi che noi (noi cinque, noi tutti che ci occupiamo di letteratura) possiamo e forse dobbiamo usare come modelli di limiti da studiare e superare.
Il dualismo cortazariano ha avuto un’eco forte e duratura nei miei primi due progetti letterari: La bomba voyeur (un romanzo) e La memoria dell’uguale (libro di racconti). Scegliere il racconto, per me, dopo aver scritto un romanzo, ha avuto un forte valore simbolico ed esplorativo: proprio nell’ottica cortazariana, significava sondare l’altra parte della luna – sempre che, ovviamente, si possa parlare di scelta in casi simili, casi in cui chi sceglie e parla e spinge non è tanto l’autore o la voce dell’autore quanto, appunto, il cuore dell’immediatezza.
LB: “Noi, quando leggiamo un romanzo poliziesco, siamo un’invenzione di Edgar Allan Poe”, scrisse Borges in Oral. Sapendo quanto sia importante Borges per la vostra formazione (e, perché no, anche Poe), vi chiedo in che modo vi abbia inventati come autori.
AZ: Mi è difficile tornare su Borges per iscritto. Di recente ho chiuso un testo di carattere saggistico, che mi ha tolto il sonno e la salute, il cui tema principale è il metodo fantastico teorizzato e messo in pratica da Borges e mi sono promesso, ripromesso, che tra me e il Ciego era finita. Cercherò di tenere fede a questa promessa con una sentenza: Borges non ti inventa come autore; al contrario, come pochi altri, ti esautora come autore: ti fornisce la chiave per capire in che modo la tua posizione di autore è subordinata a una forza (a una spinta) che ti precede e ti supera, perché «questa non è la storia delle mie emozioni, ma la storia di Uqbar, di Tlön e dell’Orbis Tertius».
LM: Nel gioco delle parti, Borges appare come il convitato di pietra: c’è, ma non c’è. Come suggerisce Piglia, per trovare Borges bisogna scavare nei suoi saggi, leggere la sua vita attraverso quella degli scrittori, filosofi, poeti che l’hanno formato. Quando invece si parla della sua presenza nell’opera di finzione (termine che soltanto a partire da Borges ha smesso di significare falsità e si è sostituito a quello molto più acclarato, tra i lettori soprattutto, di realtà, nonostante alcune sacche di resistenza, cui sfugge spesso la nozione filologica della parola finzione. Ma la filologia, si sa, è il demone del realismo.), Borges non può essere trovato, poiché l’arte della fuga dello scrittore dalla sua opera è la lezione borgesiana par excellence.
E da qui mi posso ricollegare a ciò che diceva Alfredo: mi sono lasciato guidare da quella forza di cui Tlön è il vettore, e nei Racconti di Juarez del Sud questa forza spinge fin dall’inizio, per la precisione dal “Prologo da Janka sul confine” (in cui – spoiler? – c’è un’interpolazione borgesiana), e punta alla scomparsa dello scrittore, la meta (se di meta si può parlare) è la voce.
LB: Uno degli elementi che le raccolte hanno in comune è quello fantastico e, del resto, si percepisce quanto anche la letteratura sudamericana abbia fornito gli strumenti per il vostro laboratorio del racconto. Oltre a Borges, da quali autori avete tratto linfa per questo aspetto in particolare?
LM: Faccio il giro lungo, perché di una domanda ne sono almeno due.
Jurij Tynjanov sosteneva l’idea della letteratura come sistema. Il funzionamento di questo sistema farebbe sì che le tradizioni, cui ci si appella ogni volta che bisogna trovare un argomento forte che acclari la propria opinione, non si muovano linearmente, ovvero dall’autore A all’autore B, (escludendo di fatto ogni idea di conflitto o alludendo a un tipo di conflitto che non si risolva in un mero confronto di grandi idee – bene e male, gioia e dolore, mattina e sera, pranzo e cena – pratica consueta, cui una certa facilità alla mitizzazione tipica del Novecento ha contribuito a dare sostegno), ma anzi che i passaggi da un autore all’altro all’interno del sistema letteratura, non siano mai pacificati né di per sé né per lo scrittore, e che le armi non siano le grandi idee ma i procedimenti, poiché le idee – se parliamo di bene, male et similia, tutte derivate dalla speculazione filosofica – sono state svuotate di tutto il loro senso di verità e sono passate dall’altro lato, ovvero nel calderone dell’opinione (è già tanto se possiamo sentire scrittori cercare di parlare d’interpretazione, basterebbe forse un minimo di ermeneutica, un briciolo di tecnica, invece della solita zuppa di autobiografismo e autodeterminazione letteraria).
Qual è la tradizione del fantastico? Devo richiamare in causa Borges quando dice «Bisognerebbe dire che tutta la letteratura è fantastica». – Per inciso: sarebbe anche opportuno che prima o poi qualcuno si occupi del Borges polemista –. Se così fosse (e forse lo è), esisterebbe un’unica tradizione, un immenso crogiolo in cui cuociamo tutti a fuoco lento. Se così fosse, bisognerebbe in qualche modo restringere il campo e riconsiderare Foucault, quando afferma che i linguaggi secondi – tutto ciò che era stato tenuto fuori dal processo logico e dimostrabile – hanno contribuito più o meno dal XIX secolo a creare la nostra letteratura, quella fantastica. Comunque sia, non potendo fornire una definizione univoca del fantastico, la cosa da fare sarebbe prenderne in considerazione i procedimenti, fatto che anche nei più famosi saggi sul fantastico da Todorov alla Jackson fino alle speculazioni sul weird o al fatalismo southern gothic di Ligotti, viene trattato alla lontana, mentre l’attenzione è rivolta per lo più al ribaltamento della realtà o alla sua demonizzazione e, come diretta conseguenza di entrambe, la trasformazione delle cose (e dell’uomo in cosa) in figure allegoriche, quasi tutte assimilabili alla categoria del fantasma. Insomma, il fantastico pare sia stato trattato più come un problema del contesto (quindi una deformazione del reale? Una fuga dal reale? Sì, ma verso dove?), piuttosto che come una questione letteraria. E non c’è forma più letteraria del fantastico.
Ora viene la parte più difficile, parlare dei miei modelli. Šklovskij dice che la letteratura è fatta del riuso di materiali già presenti nella letteratura stessa, cioè nelle opere degli altri scrittori, e che nel momento in cui scriviamo, stiamo rimodellando e riattivando dei procedimenti che già altri prima di noi avevano messo in atto. Nel comporre Racconti di Juarez del Sud mi sono più volte interrogato sui modi di far funzionare una figura del fantastico (il doppio o il vuoto o la vertigine o il sogno). A partire da una di queste sono andato avanti costruendo i racconti in modo tale che tale figura non si ripetesse uguale o non desse lo stesso risultato in due racconti differenti, ad esempio in La versione di Salieri e Racconti di Juarez del Sud: in quest’ultimo ho usato la figura del sogno come l’ho trovata in Borges, nell’ultimo Borges del Libro di sabbia, mentre nel primo il sogno (per precisione il sogno di Marianeve) è una figura omerica o eschilea. L’azzardo di alcuni momenti mi piace pensare di condividerlo, per almeno un racconto Innalzamento della Torre Nord, con quel libricino di racconti di Alberto Laiseca, Uccidendo nani a bastonate. Tuttavia, e concludo, il momento in cui ho compreso come avrei voluto comporre questa raccolta, è stato durante la lettura/rilettura di Un medico di campagna di Kafka, il racconto omonimo per il modo in cui i fatti smettono di essere i fatti e diventano il caso, e la raccolta stessa per il modo in cui Kafka riesce a insinuare la vertigine, a farla risuonare come il La di un diapason e tenere quella nota fino alla fine.
AZ: Colgo al balzo l’assist di Luca per una risposta decentrata. Foucault in effetti, ad esempio nel saggio come “La follia, l’assenza d’opera”, considera il discorso della critica letteraria (che egli chiama “linguaggio secondo”, rispetto al “linguaggio primo” dell’opera letteraria di volta in volta in esame), come parte integrante del discorso dell’opera letteraria stessa – come parte costitutiva del suo discorso. Questo nuovo ruolo dei “linguaggi secondi” (integrato o interno) opererebbe in tal modo rispetto all’opera letteraria solo a partire da un certo momento: questo momento, secondo Foucault, riguarda un punto di rottura o di cambio di paradigma. Cito:
La letteratura (e questo senza dubbio a partire da Mallarmé), si sta lentamente trasformando in un linguaggio la cui parola enuncia, nello stesso tempo in cui dice e nello stesso movimento, la lingua che la rende decifrabile come parola. […] Da qui la necessità di quei linguaggi secondi (che in breve vengono chiamati la critica): essi non funzionano più ora come aggiunte esterne alla letteratura (giudizi, mediazioni, contatti che sembrava proficuo stabilire tra un’opera rinviata all’enigma psicologico della sua creazione e l’atto di consumo del lettore); oramai fanno parte, nel cuore della letteratura, del vuoto che questa instaura col proprio linguaggio; sono il movimento necessario, ma necessariamente incompiuto, mediante il quale la parola è riportata alla sua lingua, e la lingua si stabilisce sulla parola.1
Rispetto alla tua domanda, Lorena, e alla risposta di Luca, questo vuol dire che l’insieme di riflessioni critico-analitiche intorno ai procedimenti della letteratura diventano parte integrante degli strumenti di chi scrive. C’è tutto un ruolo, ad esempio, nei pensatori di matrice strutturalista, della figura del vuoto: la casella vuota in costante movimento, inafferrabile e al tempo stesso fondante: la sua continua fuga di lato struttura le posizioni e i movimenti di tutti gli altri agenti. Un ruolo simile, secondo Lacan, lo ha la lettera sottratta alla regina in La lettera trafugata di Poe.
In La memoria dell’uguale una simile funzione è assolta dalla stanza nel seminterrato in Via della Piena (“Un uomo come tanti”). Ho cercato tuttavia di creare una comunicazione, per quanto indiretta, tra i racconti che compongono il libro, e forse l’elemento che li tiene insieme è proprio la circolazione di questa casella vuota, da un racconto all’altro. Nel pensare a questa peculiare comunicazione, ho certamente attinto dai procedimenti di accumulazione (ripetizione/variazione) all’opera in testi come La mostra delle atrocità di Ballard o in album come Solo piano di Philip Glass.
LB: Un altro tema che percorre le vostre pagine è quello della memoria, di cui ognuno di voi esplora sfaccettature diverse: in che modo questo tema è divenuto un filo conduttore per i vostri racconti?
AZ: «La forma della memoria è la memoria stessa», si dice in un passaggio del racconto La memoria dell’uguale: si tratta di una forma vuota – da riempire costantemente mentre sfugge di lato e in avanti; a cui tornare costantemente quando si cerca di afferrare quell’altra figura sfuggente per eccellenza: l’origine. La forma della memoria configura dunque due movimenti, allo stesso tempo: in avanti e all’indietro. Si tratta di un fattore dinamico, da un lato; dall’altro, la coesistenza di due movimenti opposti genera un cortocircuito che non è solo ermeneutico: è il cortocircuito dell’agire stesso dei personaggi, strappati dalla tensione di due spinte in opposizione.
LM: Questo movimento, centripeto e centrifugo, distanzia e approssima nello stesso momento. Non è un movimento naturale, poiché esso descrive un luogo che è insieme possibile e impossibile. C’è un’immagine che richiama questo movimento: ci troviamo a Twin Peaks, nella stazione di polizia, Bob è stato appena eliminato, e Agent Cooper ha riabbracciato Diane, quando il volto dello stesso Cooper appare sovrapposto e sfumato e dice: «we live inside a dream». Subito dopo Twin Peaks – o ciò che era il ricordo di Twin Peaks – scompare e Cooper, accompagnato da Gordon e Diane, arriva allo svincolo, nel punto in cui il movimento centripeto e centrifugo si annullano, diventando la forma stessa della memoria e che riduce quest’ultima al suo stato di evento, e soltanto così Cooper è proiettato fuori da questo incrocio verso l’origine, che tuttavia resterà inafferrabile. Ricorderà o ha dimenticato? Resta soltanto il dubbio, «che è la chiave che apre tutte le storie» (come si dice in un passaggio del Crogiolo).