Se lo dicono loro – Flaiano, O’Connor, Dostoevskij – è senz’altro vero!

«Dillo con parole tue…»
Quante volte siamo stati sollecitati in questo senso dalle nostre maestre o dai nostri insegnanti, nel corso delle nostre vite! Un metodo come un altro di cui disponevano, per educare i propri allievi ad assimilare in modo semplice e corretto nozioni generali molto complesse. Tuttavia, a volte è necessario prendere in prestito le testuali parole dei maestri, rinunciando a quelle proprie, per esprimere ciò che davvero abbiamo bisogno di trasmettere.

È anche un modo semplice per mettere in pratica ciò che scriveva Quiroga nel suo famoso “Decalogo del perfetto scrittore di racconti” di cui avevo scritto tempo fa: ispirarsi ai maestri, credere in loro per trovare una propria personalità come scrittori, senza imitarli troppo, lavorando con pazienza. Dunque, oggi saranno le parole di Flaiano, della O’Connor e del vecchio e caro Dostoevskij a guidarci, ancora una volta, tra le regole di ciò che serve per tentare di creare un buon racconto.

Ennio Flaiano fissa una regola generale nel suo Diario degli errori1 che è la seguente:

Quando scrivi un articolo, un racconto, un pezzo qualsiasi lascia correre almeno due giorni prima di spedirlo. Ricordati che niente ti avvilisce di più e ti toglie il gusto di scrivere come veder stampata una cosa inesatta, che con un minimo di pazienza, senza fretta, avresti potuto rendere migliore o almeno leggibile. Ricordati, ma tu lo sai bene, che un racconto cattivo annulla dieci racconti buoni e che la memoria del lettore malizioso torna più volentieri sulle prove mediocri o cattive, che sulle buone. Queste gli sembrano indispensabili, non ne fa gran merito allo scrittore, ma quelle lo accontentano nel suo bisogno di distruzione.

Flaiano aveva sempre con sé un taccuino, dove annotava pensieri, frammenti, brevi riflessioni, critiche, note autobiografiche, aforismi; ha scritto un’infinità di sceneggiature, diversi racconti, qualche poesia e, infine, uno dei romanzi italiani più belli – a mio parere – del Novecento, Tempo di uccidere, che gli è valso il primo premio Strega della storia. Quindi, di lui ci si deve fidare.

Flannery O’Connor, invece, di racconti ne ha scritti davvero tanti, oltre a un paio di romanzi, diversi articoli e svariati testi per le sue conferenze. Lei, a proposito della brevità dei racconti, scriveva che è il significato ciò che impedisce al racconto di essere breve, pur nella sua brevità.

Preferisco parlare del significato di un racconto, piuttosto che del suo tema. La gente parla del tema di una storia come se si trattasse dello spago con cui è legato un sacco di mangime per polli: se riesci ad acchiappare il tema come se fosse il capo giusto dello spago, la storia ti si riverserà addosso e potrai dar da mangiare ai polli. Ma non è questo il modo in cui il significato agisce nella narrativa. Quando potete stabilire quale sia il tema di un racconto, e scinderlo dalla storia stessa, allora state pur certi che il racconto non è un granché. Il significato deve essere incorporato nella storia, calato nel concreto. Il racconto è un modo per dire qualcosa che non può essere detto in nessun altro modo; per trasmettere il significato, ogni singola parola è indispensabile. 2

Dunque, la brevità di un testo narrativo e un tema centrale se non addirittura ‘socialmente utile’ non fanno di quel testo un (buon) racconto.

Infine, Fëdor Michajlovič Dostoevskij, colui che non ha bisogno di presentazioni. La casa editrice Il Saggiatore, per celebrare i duecento anni della sua nascita, ha pubblicato in un volume di oltre mille pagine tutte le sue lettere, ché di lettere ne ha scritte davvero tante! Sono una fonte inesauribile di spunti, riflessioni e suggerimenti, tra le altre cose. In una di queste 3, il 31 maggio del 1858, rispondendo al fratello maggiore dice quanto segue:

Mi scrivi, mio caro, che probabilmente sono pieno di amor proprio e ora desidero comparire con qualcosa di molto buono e per questo mi metto a covare come un uovo questo qualcosa di buono. Ammettiamo che sia così: ma poiché ho rimandato l’impegno di comparire con un romanzo, e sto invece scrivendo due racconti che saranno appena passabili (e speriamo lo siano), adesso non sto nemmeno covando. Ma cos’è questa tua teoria che un quadro debba essere dipinto di getto? Quando te ne sei convinto? Credimi che in ogni cosa è necessario un lavoro e un lavoro enorme. Credimi, una poesia semplice ed elegante di Puškin, di qualche verso, sembra scritta di getto perché per lunghissimo tempo è stata rimuginata ed è stata corretta e ricorretta da Puskin. Gogol’ ha scritto ‘Le anime morte’ per otto anni. Tutto ciò che era stato scritto di getto era immaturo. Si dice che, al contrario, nei manoscritti di Shakespeare non ci fossero cancellature. Ecco perché nelle sue opere ci sono così tante mostruosità e cattivo gusto: se avesse lavorato un po’ di più, il risultato sarebbe stato migliore. È chiaro che stai confondendo l’ispirazione, cioè la prima, istantanea, creazione di un’immagine o di un movimento interiore (cosa che accade sempre) con il lavoro. Per esempio, io prendo immediatamente nota di una scena così come mi è apparsa la prima volta, e ne sono felice; ma poi per mesi interi, per un anno la rielaboro, mi faccio ispirare da questa scena per alcune volte e non per una volta sola (perché amo questa scena) e per alcune volte le aggiungo o tolgo qualcosa, come mi è già successo, e credimi che il risultato è di gran lunga migliore. Se soltanto ci fosse l’ispirazione! Senza ispirazione, ovviamente, non verrà fuori niente.

E allora, riassumendo, per dirlo con parole mie e senza rinunciare al patologico bisogno di elencare, scrivendo ancora una volta un/una to-do-list, questi tre grandi autori ci dicono che per scrivere un buon racconto occorre:

  1. lavorare molto e con tanta pazienza
  2. avere chiaro il significato che si vuol trasmettere
  3. non lasciarsi ingannare da chi sostiene che se non è stato scritto di getto, non vale niente.

Altrimenti, il rischio è che un racconto cattivo ne annulli dieci buoni, svanisca la ricerca di trasmettere l’unico significato che per noi conta davvero, confondendo l’ispirazione con il duro lavoro che c’è dietro ogni testo che valga la pena di essere letto.
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  1. Edito da Adelphi, p. 51
  2. Tratto da Nel territorio del Diavolo, edito da Minimum Fax, p. 63
  3. Tratto dalle Lettere ,p. 343-344
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