
Uno degli incontri con l’autore più interessanti e coinvolgenti a cui io ricordi di aver partecipato è stato senza ombra di dubbio quello allo scorso Salone Internazionale del Libro di Torino, in cui l’ex soldato dell’esercito statunitense Brian Turner ha presentato il suo primo romanzo La mia vita è un paese straniero. Turner ha catturato la mia attenzione soprattutto perché non si è trattato di un incontro basato sul racconto di episodi vissuti, aneddoti dalle missioni in Bosnia o Iraq, ma del suo bisogno di iniziare a scrivere poesie una volta dismessi gli abiti militari. A colpirmi è stata in particolar modo la sua premura nel parlare di linguaggio, dell’uso attento delle parole, anche quelle poco educate dette tra soldati, e di quanto sia importante per lui la forma, l’estetica e la musicalità, letteralmente, con le quali ha tentato di restituire la testimonianza di qualcosa di orribile come la guerra.
Scrivere per salvarsi la vita, quella da civile questa volta, perché dopo una guerra si ritrova a doverne ricominciare una nuova. Scrivere perché il suo compito di scrittore, è quello di non far calare mai l’attenzione sulla presenza della guerra, più che mai presente in questo momento storico, al di là di quello che si può percepire in alcune zone pacifiche del mondo. Ma allora perché arruolarsi volontariamente?
Premettendo di essere pienamente consapevole delle proprie responsabilità, e ricordando che non sono certo poesie e romanzi ad esimerlo da queste, Turner ha risposto che scrivere quel romanzo era stato un modo per cercare la risposta a quella domanda, risposta che lui per prima cercava. Ed eccolo, in uno dei capitoli più intensi del libro, darsi e darci una motivazione:
Dissi fanteria perché non sapevo se avrei potuto farcela… Dissi fanteria perché il mio bisnonno Carter per poco non fu asfissiato con il gas nella battaglia delle Argonne nell’autunno del 1918… Dissi fanteria perché un mio trisavolo si arruolò nell’esercito unionista… Alzai la mano e dissi Giuro perché se non l’avessi fatto me ne sarei vergognato per anni, benché non avesse senso, benché nessuno di quelli che mi stavano a cuore ci avesse mai pensato, benché nessuno dei veterani che avevo in famiglia avesse mai detto una parola, o benché ne avessero parlato, dicendomi Stai tranquillo, Brian, non ha nessuna importanza, credimi, non è l’uniforme a fare l’uomo… Firmai perché sapevo, a un livello profondissimo e immutabile, che sarei partito e mai tornato.[1]
La mia vita è un paese straniero è un libro stupendo, più un memoir che un romanzo, fatto di episodi e frammenti, un’alternanza di riflessioni personali, ricordi e descrizioni di azioni e incursioni scritte come fossero quasi in presa diretta, mentre accadono. Prosa che sfocia in poesia e il peculiare ritmo sono la cifra stilistica di Turner. Anche alcuni capitoli letti da soli, si reggono tranquillamente in piedi come bellissimi racconti di guerra. E fu proprio da quell’incontro che è iniziato il mio interesse verso la narrativa di guerra, più che altro guerre recenti, della quale ero completamente digiuno. Non avevo idea di quali autori offrisse il panorama letterario contemporaneo, e soprattutto quali fossero degni di nota.
Dopo Turner si è però definitivamente aperto un varco nella mia curiosità, ed è stato praticamente inevitabile incrociare sulla mia strada Phil Klay con il suo libro Fine missione. Usciti in America nello stesso anno, il 2014, entrambi i libri rappresentano due modi originali e complessi -anche se molto diversi- di raccontare quel tipo di esperienza.
Fine missione, vincitore per altro del National Book Award e il cui titolo originale è Redeployment, è una raccolta di dodici racconti che hanno la particolare caratteristica di raccontare quasi esclusivamente storie di soldati al rientro dalla guerra. Il vero protagonista del libro, centro della narrazione e il filo conduttore di tutti i racconti, è lo stato d’animo di colui che finisce la missione e si appresta a rientrare nel mondo civile. Anche quando i protagonisti, sempre diversi, non sono soldati direttamente coinvolti in prima linea. La vita dopo la missione quindi, il dover fare i conti con tutti i contraccolpi psicologici e fisici, assieme al senso di straniamento e impotenza con cui moltissimi veterani sono costretti a convivere una volta rientrati a casa.
Phil Klay ha prestato servizio in Iraq come Public Affairs Officer dal 2007 al 2008 ma non ha mai partecipato ad azioni di combattimento. È laureato in scrittura creativa e dopo la guerra ha iniziato la stesura del libro, che non è autobiografico, ma dove ognuna di quelle storie poteva in qualche modo raccogliere la voce e il vissuto degli ex soldati che hanno combattuto in Iraq e con i quali negli anni l’autore ha avuto modo di parlare.
Anche nel caso di Fine missione, seppur meno poetico e visionario nello stile, la scelta delle parole è fondamentale. Sono infatti continuamente riproposte sigle e modi di chiamare il nemico in uso tra i militari, così come battute e volgarità varie, anche se mai esagerate e gratuite, ma solo funzionali alla verosimiglianza di certi dialoghi e situazioni. Utilissimo in tal senso il glossario delle ultime pagine: un elenco di acronimi e termini, specifici o gergali, con annesse spiegazioni.

Il libro parte fortissimo con il racconto che dà il nome alla raccolta: Fine missione. È un racconto mostruosamente riuscito e che racchiude in poche pagine tutto quello che ritroveremo nelle restanti storie. Mettere un racconto del genere in prima posizione è di certo uno dei migliori modi per acchiappare il lettore fin da subito, e tirarlo dentro nel mondo e negli stati d’animo che ha intenzione di descrivere e trasmettere. Lo fa con forza, ma anche con una precisione e un equilibrio perfetti, lasciando il proprio personaggio perennemente in bilico tra la voglia di tornare alla normalità e il disagio che questa procura una volta finita la missione. Klay ti dà subito la dimensione in cui si trova il sergente Price, di ritorno dall’Iraq:
Cominci a pensarci più tardi, quando te ne lasciano il tempo. Non è che dalla guerra al centro commerciale di Jacksonville uno ci vada tirando dritto. Al termine della missione ci hanno mandati a TQ, una base logistica nel deserto, per farci decomprimere. Decomprimere. Per noi voleva dire farci un sacco di seghe sotto la doccia. Fumare un sacco di sigarette e giocare un sacco a carte.
Ecco qua. Prima eri in una zona di guerra dura e adesso ti ritrovavi su un sedile imbottito a fissare il bocchettone dell’aria condizionata, pensando: Ma dove cazzo sono?[2]
Tutto il viaggio passato con i compagni e i fucili ancora addosso, anche se della guerra non c’è più traccia, cercando di pensare a qualcosa di bello, scacciando via le immagini ancora nitide delle città devastate e degli amici persi davanti agli occhi. Uno spaesamento così avvolgente che Price fa fatica a concentrarsi su sua moglie Cheryl, su quel pensiero che significa casa, pace, dolcezza, ma che in quel momento sfugge, perché una delle fatiche maggiori è stabilire un ordine dei pensieri, lasciarsi alle spalle le cose andate, le brutte storie e mettersi davanti ciò che di buono ti attende a casa.
Pensa anche al suo cane Vicar a cui vuole davvero bene, come a tutti i cani, ed è proprio quest’amore a sbatterlo dritto con i ricordi all’Operazione Scooby, in cui i cani li ammazzavano di proposito. Ogni pensiero che dovrebbe essere familiare è come se lo rimbalzasse comunque in guerra. Lo stile di Klay non è asciutto, ma è asciutta l’aria ferma che ti lascia intorno quando sei lì con i suoi protagonisti a guardare quella che per il senso comune dovrebbe essere felicità.
Lui e i compagni trovano conforto in Irlanda, tappa intermedia sulla via del ritorno, dove si sbronzano in modo colossale e si divertono, anche se già con quel filo di nostalgia. Passano una bella serata e una volta montati sull’aereo, crollano in un sonno profondo risvegliandosi in America. È fatta, eppure il protagonista non ce la fa a godersela: cosa farsene di due braccia se non stringono più un’arma?
Quando sono arrivato allo sportello e ho consegnato il fucile, però, mi sono bloccato. Era da mesi che non sparavo. Non sapevo dove mettere le mani. Prima le ho infilate in tasca, poi le ho tirate fuori e ho incrociato le braccia, e alla fine le ho lasciate penzolare lungo i fianchi, inutili.[3]
Tornare a casa significa anche riscoprire sensazioni che avevi perso di vista, che il tuo tatto e il tuo olfatto non conoscono più, tanto che Price è quasi timido con suo moglie, ci va piano. I momenti davvero piacevoli ci saranno solo quando torna con i ragazzi della vecchia squadra, quando si ritrovano e si sostengono, perché non tutti hanno trovato qualcuno ad aspettarli. E cc’è chi rischia di perdersi, definitivamente. Tutta la raccolta Fine missione è disseminato di storie di ex soldati che si suicidano o che vanno fuori di testa e lo fanno soprattutto a distanza di anni dal loro ritorno.
Ecco, Klay ti lascia lì impalato a ragionare su questioni come queste, su quanto possa essere brutto ritornare dall’orrore e non avere conforto. Non è qualcosa che si possa immaginare, ma con le sue parole è come se ti aiutasse a visualizzare anche le espressioni di quei ragazzi. Menti e corpi che non riescono più a fare spazio alla serenità:
E per quanto fossi contento di essere negli States, e anche se avevo odiato gli ultimi sette mesi e l’unica cosa che mi aveva dato forza erano stati i miei commilitoni marines e il pensiero del rientro a casa, mi stava venendo voglia di tornare indietro. E fanculo tutto quanto.[4]
Il finale di questo racconto è un capolavoro, seriamente, come lo sono quasi tutti i finali di questa raccolta.
Vigar è un cane vecchio e malato, così Price e Cheryl decidono di abbatterlo. Ed è Price a volersene occupare, evitando però il veterinario. Sappiamo tutti come andrà a finire, non è qui la tensione. Non è il povero Vigar il punto. Il punto sta in quello che vede Price attraverso il mirino.
Mentre punta il fucile contro Vigard la sua mente torna alle lezioni di tiro: ripassa nella sua testa cosa accade ad ad un proiettile quando esplode il colpo e si schianta in un corpo, quali sono i modi migliori, anzi i modi giusti, per uccidere qualcuno: come e dove colpire per non farlo soffrire. La fisica è molto chiara a riguardo.
Guarda il suo cane e applica tutto quello che l’esercito gli ha insegnato in fatto di armi, pallottole e anatomia.
E noi lettori, per tutta quella dolorosissima e meravigliosa pagina, siamo esattamente tra la sua mente e quel mirino.
I reduci di Klay, in città si sentono come alieni anche solo osservando la gente al supermercato che continua a fare le sue cose inutili e stupide, come se nulla stesse accadendo nel mondo. Persone che non supereranno mai una certa soglia di paura o di allarme, trascorrendo ogni giorno delle loro vite in “codice bianco”. Non sapranno mai cosa vuol dire stare all’erta ad ogni passo, in quella condizione che offre solo due modi di reagire: controllarti, definito da Price “codice arancione”, oppure crollare e precipitare fino al « non me ne frega un cazzo se muoio».
I civili e i veterani, e fra loro il baratro incalcolabile, è un altro tema forte di tutto il libro. A cui si aggiunge poi la diffidenza verso chi è incuriosito da un reduce, da chi si aspetta il racconto triste, o quello d’azione, o il trauma, che fa sempre colpo. Una diffidenza ai limiti dell’intolleranza anche verso chi magari vorrebbe sinceramente ascoltare le loro storie.

L’incomunicabilità tra vissuti che sono esageratamente distanti per capirsi davvero è ben descritta in Preghiere nella fornace, altro racconto straziante. Il protagonista è un prete in missione che dice messa ai vari plotoni e offre supporto morale ai soldati che ne hanno bisogno. Tra di loro c’è Rodriguez, soldato che ha perso quasi completamente il sonno a causa dello stress e perché non riesce a darsi pace per la morte di alcuni amici e compagni, e per altri che non sono più loro e che si comportano al limite della follia. Tutto intorno a lui è schizofrenico.
La vicenda è complessa e chiama in causa altri personaggi, ma i loro dialoghi per tutto il racconto, rappresentano benissimo lo sforzo di entrambi nel cercare un punto comune, parole e punti di vista su cui poter trovare conforto l’uno e offrire concretamente il proprio aiuto l’altro. Ogni incontro però finisce affogato da una parte nella delusione e dall’altra nell’impotenza. In cuor suo il prete sa di non poter capire fino in fondo la situazione di quei ragazzi, sa che non c’è modo di confortare lo spirito di chi vive ogni giorno il campo di battaglia. E c’è questa scena, bellissima e disarmante.
Tornati a casa, dopo anni i due si incontrano ancora, ed è Rodriguez a presentarsi al prete con un foglio su cui sono stampate le ultime parole di un suo vecchio sergente che si è appena suicidato. Stanno in silenzio, fino a quando il prete non finisce di leggere e si rivolge all’ex soldato:
– Ce l’hai con te stesso? – dissi.
– Un po’, – rispose. Mi guardò di sottecchi. – Ce l’ho anche un pò con lei. Perché non ha fatto niente. Però ce l’ho di più con me stesso.
[…]
– Venti secoli di cristianesimo, – dissi. Penseresti che abbiamo imparato -. – In questo mondo, Lui ci promette soltanto che non soffriremo da soli.
Rodriguez si girò e sputò nell’erba. – Fantastico, – disse.[5]
[1] Tratto da La mia vita è un paese straniero di Brian Turner, NN Editore, 2015
[2] Phil Klay, “Fine missione”, in Fine missione, Einaudi, 2015
[3] Phil Klay, “Fine missione”, in Fine missione, Einaudi, 2015
[4] Phil Klay, “Fine missione”, in Fine missione, Einaudi, 2015
[5] Phil Klay, “Preghiere nella fornace”, in Fine missione, Einaudi, 2015