Di Francesca Ceci
La casa editrice Gran Via ha dedicato ai racconti un’intera collana. Si chiama Dédalos e si snoda tra i «labirinti della cuentística latinoamericana» per liberare storie brevi di autori cubani, cileni, messicani e boliviani già affermati o ancora sconosciuti in Italia.
Tintas, tredici racconti dal Cile è portavoce degli autori nati durante il periodo della dittatura, nelle cui narrazioni si sovrappongono la memoria degli anni Settanta e il dolore attuale, la politica rimossa e la decadenza contemporanea, in una cicatrice lunga quanto il Paese che viene raccontato.

Non è semplice scegliere un solo racconto all’interno di un’antologia. In Tintas ci sono tredici paia di occhi che vedono diversamente, tredici voci accomunate dalla provenienza dalla stessa fine del mondo che diventano tredici mani che plasmano qualcosa di unico e di diverso.
Ma ogni lettore ha il proprio debole, quei temi irrinunciabili, quelle visioni in cui intravedere oltre, qualcos’altro, quelle voci che ha già sentito e che vorrebbe ugualmente riascoltare o cancellare.
Nel racconto di Andrea Jeftanovic, Finché non si spegneranno le stelle 1, ci sono tanti degli elementi tristi e preferiti. La solitudine, l’anzianità, l’ambientazione precaria dei corridoi su cui si affacciano le stanze dei malati, tutti uguali e tutti diversi, le piccole manie irrinunciabili e senza senso, le teste che non funzionano più, le memorie svuotate.
C’è il rapporto tra padri e figli, legame all’origine della scrittura della generazione cilena nata negli anni ‘70 e ‘80, allontanatasi dal realismo magico dei genitori per avvicinarsi all’intimità con l’occhio della realtà e della verità. Come si chiede Alejandro Zambra, altro autore della raccolta: «Cosa ne si fa dei libri scritti dal proprio padre? Ci si limita a leggerli e ad accettarli? La sola esistenza di quei romanzi è un invito a scrivere la propria storia.»
Accogliendo l’invito, Andrea Jeftanovic, con dettegli precisi e leggeri, introduce una realtà quotidiana e nascosta, non risparmia nessuna immagine dei ritmi ripetitivi e dolorosi di un ambiente di cura, dei rapporti che ci sono dietro o che solo li attraversano. Ci lascia con il dubbio: tutto quello che c’è dietro alle bugie dei medici e degli infermieri e dei figli è un inganno o un gesto di umanità?
Ma soprattutto ci regala le ultime fotografie di un padre e di una figlia, soli tra le mura di una stanza anonima personalizzata con mobili dai nomi propri, chiusi dietro una porta a fumare nonostante domani, che si interrogano su presente e passato, su cosa sono stati singolarmente e reciprocamente, su ciò che si è dimenticato o che è semplice ricordare. Che si confrontano su cosa si diventa solo a causa del tempo, senza nessuna colpa, l’incredulità per i cambiamenti e le trasformazioni a cui resistere senza potersi sottrarre.
Osservai la vecchiaia: carne che fingeva di essere carne, unghie giallognole, ossa di cartapesta. All’improvviso lo rividi giovane, in sella a un cavallo o disoccupato per via della crisi degli anni Ottanta, incapace di parlare, mi guardava dalla sedia con vuoto disinteresse, il telefono staccato, il campanello della porta, la pila di fatture non pagate che cresceva. Chiusi con un bocchino il resto dello spinello e facemmo gli ultimi tiri.
Prima di spegnere la luce e le stelle, prima di partire per un viaggio senza durata verso il cielo notturno più limpido del pianeta, Jeftanovic ci offre il racconto di un’ultima gioia, lo spiraglio di un bagliore, qualche ora o qualche giorno di quella che Mario Benedetti chiamava «la tregua». Una parentesi di felicità inaspettata che è l’invaghimento di un uomo che non è più lui, senza futuro ma con un presente che gli riconosce un breve diritto a sorridere ancora. Insieme alla figlia. Insieme alla donna della stanza accanto. Per le quali curare il diabete, provare a fermare le mani che tremano. Pettinarsi. Profumarsi. Una tregua doppia, tripla, un ultimo regalo.
«E cosa c’è lì?»
«Tante stelle, il miglior cielo del pianeta, le stelle cadenti più visibili. Ci sono anche le colline ricoperte di vigneti, uliveti, fiumi, valli, sentieri; ti piacerà.»
«E quando?»
«Venerdì, tra due giorni.»
Francesca Ceci ha scritto Altre parole sul numero due di Tre racconti. Per leggerlo puoi sfogliare la rivista su ISSUU o scaricare il Pdf.