Tra le nostre recensioni si trovano spesso, accanto a grandi nomi del racconto, molte nuove uscite. Scoperti sull’onda del successo o tra qualche novità passata inosservata, autori innovativi e soluzioni originali (in dosi più o meno consistenti) fanno parte dell’armamentario essenziale di una rivista letteraria. Un po’ come i sacerdoti egizi consultavano il nilometro dell’isola di Roda per sapere quando il Nilo avrebbe esondato, così noi cerchiamo di vedere, o almeno indovinare, dove sta andando il modo di scrivere racconti.

Ciò non toglie che a volte, anche guardarsi indietro possa dare un qualche giovamento. Quindi torciamo il nostro collo un po’ più in là oltre Puškin, e poi Poe, e ancora oltre oltre e poi oltre. Con il passare dei secoli le parole cambiano e le forme seguono, i racconti esistono ma non sono come noi li conosciamo: nel mondo dove siamo arrivati c’è la Peste Nera, il Feudalesimo e i racconti si chiamano novelle. Nel 1300 troviamo Giovanni Boccaccio e il suo Decameron.
Nella tradizione e nel canone di Bembo, Boccaccio è il Ringo Starr delle “Tre Corone fiorentine” dopo Dante e Petrarca. Visto il relativo scarso successo della novella nei secoli seguenti nella letteratura italiana, questa fama di eterno secondo non lo ha abbandonato, tutt’ora il prosatore non è tra gli autori classici più noti e frequentati dal grande pubblico. Per chi vuole confrontarsi con questo genere letterario però, anche l’approfondimento di un testo medievale può tornare utile. E una delle cose migliori degli autori antichi è che non reclamano i diritti d’autore, potete dunque leggere le due novelle che seguono ai link in fondo all’articolo.
Nastagio degli Onesti, amando una de’ Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato. Vassene, pregato da’ suoi, a Chiassi; quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani. […]
Queste le prime righe di riassunto dell‘ottava Novella della quinta Giornata. Membro di una casata nobiliare della Ravenna medievale, il giovane Nastagio largheggia in spese per corteggiare un’altrettanto nobile donna appartenente a una famiglia ravennate,
realmente esistita come quella del protagonista, dei Traversari. Il nome di lei però non viene mai pronunciato. Vedendo a rischio la sua salute e la sua fortuna amici e parenti gli consigliano a Nastagio di allontanarsi un po’ dalla città per tenersi alla larga dalla causa dei suoi mali. Il giovane «[…] fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse […]» ben decide di andare alla pineta di Classe, appena fuori Ravenna. Qui il tono della novella cambia bruscamente: al giovane appare una visione terrificante. Una donna nuda, braccata da due mastini, viene inseguita da un cavaliere armato. È un medioevo oscuro e pagano quello che emerge dal bosco: immagine classica della letteratura morale dell’epoca, e ripresa anche da Dante nella Selva dei Suicidi, è la Caccia selvaggia. Reminescenza precristiana, Wotan/Odino e la sua muta di caccia che attraversa la notte, portando con se gli sventurati mortali che assistono, sì è trasformata in Re Artù, Carlo Magno o Teodorico, e prima di svanire dalla letteratura italiana viene agguantata da Dante nelle sue visioni infernali.

Nastagio prova a difendere la donna, ma il cavaliere, mentre i cani le azzannano il corpo e la sua spada la trancia in due per strapparle il cuore, racconta che questa è la pena a cui la dama è stata condannata per aver rifiutato il suo amore. Tutti i venerdì in quel luogo il massacro si ripete e così in molti altri posti, mentre la donna continuamente si rigenera.
Terminata la visione, muta rapidamente anche il tono della novella: Nastagio, ripresosi dallo spavento nascosto tra i cespugli, ha un’idea. Un ultimo grande banchetto, proprio dentro la pineta di Classe, a cui sarà invitata anche la sua amata riottosa. Ecco che il venerdì seguente, sul finire del banchetto, la caccia selvaggia riappare, e con essa il terribile cavaliere, che dopo il suo sanguinoso rito non si esime dall’ammonimento esemplare. L’amata di Nastagio, atterrita, decide che tutto sommato non le conviene essere così scontrosa, e addirittura si offre tutta al pretendente, che ormai può ritenersi soddisfatto.
E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravigiane donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano.
La novella ebbe un discreto successo all’epoca, tanto che più di cento anni dopo Sandro Botticelli raffigurò su quattro pannelli a tempera l’episodio boccaccesco. I dipinti, che accompagnano più che degnamente questo articolo, sono ora conservati al Prado di Madrid e nella collezione privata della famiglia Pucci a Firenze.

La bravura di Boccaccio in questa novella, apparentemente così semplice, sta proprio nell’abilità di mescolare e tessere un materiale già esistente. Espliciti i richiami danteschi, ma altrettanto forti i meccanismi dell’exemplum, però ribaltati e distrutti da una gioviale ironia. In pochissime righe l’autore descrive scene orrorifiche, di amore romantico non corrisposto, o di gioiosa materialità. Il prototipo della novella. Ma se giriamo la pagina, un’altra storia segue quella che abbiamo appena visto. E nel medioevo nessuna storia va mai da sola.
Federigo degli Alberighi ama e non è amato, e in cortesia spendendo si consuma e rimangli un sol falcone […]
Ci siamo spostati a Firenze, dove si ripete simmetricamente una situazione ormai nota. Il nobile Federigo, innamorato di una donna, si strugge d’amore e si spende in cortesie. Ma a differenza di Nastagio o non ha abbastanza denaro o non è stato consigliato adeguatamente, perché molto presto si ritrova senza il becco di un quattrino, a mangiare ribollita in un suo poderetto a Campi Bisenzio, allora contado fuori le mura della città toscana. E le piccole discordanze continuano: della donna infatti sappiamo molto di più, oltre al suo nome, Giovanna, sappiamo anche le ragioni della sua scostanza, è infatti una donna sposata. Quello che non conosciamo sono le sue origini, è nobile? Di sicuro non è di famiglia prestigiosa e realmente esistita, come erano gli Alberighi, gli Onesti o i Traversari della novella precedente.
Casualmente i due personaggi si ritrovano dopo qualche tempo, Giovanna è rimasta vedova e cresce il figlioletto. Federigo mangia verdure dell’orto e va a caccia con il suo falcone, unico vero segno di nobiltà rimasto al povero diseredato. Il ragazzino comincia a passare sempre più tempo con Federigo, apprezzando soprattutto la compagnia del suo falcone, che vorrebbe per sè. Ammalatosi per il troppo desiderio (siamo pur sempre nel 1300, eh) il piccolo chiede che gli sia portato il rapace così da guarire. La madre, spinta dall’amore materno, si autoinvita a casa dell’ammiratore. Federigo, imbarazzato da una visita tanto attesa, non è però andato a caccia quel giorno, e non ha nulla di dignitoso da offrire alla sua amata. Visto il falco, e vistolo grasso, sacrifica il suo amatissimo animale, ultimo segno di nobiltà rimastogli, per nutrire la sua ospite.

Donna Giovanna dopo cena, rompe gli indugi e chiede per il figlio malato la grazia di avere il falcone, così che guarisca. Al ché l’uomo, annichilito, scoppia a piangere e confessa che il falcone era nel piatto principale. Nonostante la cinica ironia di questa novella, a cui segue in ogni caso un lieto fine per – quasi – tutti, ci sono alcuni dettagli interessanti, che svelano qualcosa di più su questo secondo quadro. Oltre alla maggior presenza attiva della donna (ha un nome, una storia, un abbozzo di personaggio) il maggior spazio è dato ai dialoghi, al colloquio e alla cena tra i due protagonisti. Spazio per citazioni stilnoviste e cortesi, il piccolo confronto è anche il luogo giusto dove i personaggi dimostrano le loro qualità, si creano e si approfondiscono, superando il limite dei ruoli piatti della novella precedente. Ma il dettaglio più peculiare è un altro: mentre la novella di Nastagio è stata raccontata senza grandi introduzioni, quella di Federigo ha richiesto una rassicurazione in più:
Dovete adunque sapere che Coppo di Borghese Domenichi, il quale fu nella nostra città, e forse ancora è, uomo di grande e reverenda auttorità ne’dì nostri, e per costumi e per vertù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo e degno d’eterna fama, […]. Era usato dire, tra l’altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato Federigo […]
Coppo, personaggio realmente esistito e conosciuto da Dante, vivente al momento dell’ambientazione del Decameron, è qui chiamato ad essere garante della veridicità della storia. Nessun narratore autorevole aveva dovuto confermare la storia di Nastagio, dove cavalli e mastini demoniaci appaiono nei boschi fuori Ravenna, quasi a dire che sia la storia più romantica, sia quella meno “realistica” e abbia quindi bisogno di un autorità a supporto. Boccaccio, cresciuto da un mercante e vissuto alla corte angioina e tra i mercanti fiorentini, aveva un’idea ben precisa dello spirito degli uomini.
Novella di Nastagio degli Onesti
Novella di Federigo degli Alberighi
Un bell’articolo grazie. Bene ricordare che un certo “genere breve” ha origini lontane…