Di Manuel Crispo
Un giorno un uomo conobbe una giovane signora in casa di amici ma non la guardò bene, vide che aveva lunghi capelli rossastri, un volto dalle ossa robuste con zigomi sporgenti da contadina slava e mani tozze con unghie molto corte. Gli parve timida e quasi impaurita di parlare e di esprimersi. Il marito, un uomo tarchiato con occhi sottili e diffidenti in un volto rinchiuso pareva respirare con il collo gonfio e gli ricordò i ranocchi cantanti. Aveva però caviglie fragili e senili e le due cose, collo e caviglie, davano al tempo stesso una idea di forza e di debolezza 1 .

Essenzialità. Parola chiave nel mare di parole chiave che compongono il dizionario poetico di Goffredo Parise. Nato a Varese nel 1928 da Ida Wanda Bertoli, ragazza madre, cresciuto da lei e dal giornalista Osvaldo Parise, che in seguito lo introdusse alla scrittura, Parise attraversò il ventesimo secolo con affetto e una modestia quasi orientale. Fu amico di Neri Pozza (che pubblicò il suo primo romanzo), Carlo Emilio Gadda (che lo aiutò a scegliere casa), Eugenio Montale (che fu tra i primi a credere nella forza della sua scrittura).
Autore di appassionati reportage di viaggio dedicati ai paesi orientali e al Sudamerica, influenzato dai suoi poeti preferiti e dalla cosiddetta letteratura industriale di Ottiero Ottieri e Paolo Volponi, Parise fu maestro di una prosa che lui stesso definiva “poetica”, volta all’essenzialità ma ricca di suggestioni oscure e di quasi inavvertibili sfumature grottesche. La sua ricerca di un linguaggio più intimo ed essenziale lo porterà sul finire degli anni ‘60 a elaborare il progetto dei Sillabari, la cui nascita Parise lega all’incontro con un bambino che, nella piazza sotto casa, su una panchina, leggeva (appunto) un sillabario. Su una pagina c’era scritto: l’erba è verde. «Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua semplicità ma anche nella sua logica. C’era la vita in quel l’erba è verde, l’essenzialità della vita e anche della poesia» racconterà in seguito.
Nell’Italia degli anni ‘70 non esiste aspetto della cultura e dell’arte che non sia in qualche modo politicizzato, volto alla ricerca di una sempre maggiore complessità tematica e formale. In controtendenza rispetto ai suoi tempi così «difficili», Parise realizza una serie di racconti brevissimi (che qualcuno ha definito anche “romanzi in miniatura” e “poesie in prosa”) ognuno dei quali dedicato e intitolato a un sentimento o a un’emozione, tutti essenziali, fulminanti, a tratti ermetici. I primi escono sul Corriere della Sera fra il 1971 e il 1972; seguirà una seconda serie fra il 1973 e il 1980 e nel 1984 la raccolta in un unico volume intitolato, appunto I Sillabari.
Come spesso accade, il primo racconto, intitolato Amore, è anche una vera e propria dichiarazione di poetica.
Lei disse che aveva studiato molti anni danza classica ma che aveva abbandonato la danza quando si era sposata, dati gli impegni della famiglia. Ora, ogni tanto, provava una grande malinconia.
«Perché?»
«Mah, non lo so».
«Forse le sarebbe piaciuto diventare ballerina?»
«Mi sarebbe piaciuto, ma sa, pochi riescono, e poi mi sono sposata. Non capisco perché ogni tanto ho una grande malinconia. Eppure sono felice, amo molto mio marito e i miei figli, la nostra famiglia è perfetta ed è, per me, la cosa più importante di tutte. È strano. Mio marito dice che è un po’ di esaurimento nervoso».
L’uomo sapeva che non era strano ma, per rispetto e delicatezza, non lo disse.
Parise ambisce alla limpidezza formale di una favolistica moderna e utilizza termini che possono essere compresi da tutti per raccontare vicende che, attenendo ai sentimenti più comuni e universali, possano raggiungere e unire tutti gli uomini della Terra. Il linguaggio dei Sillabari, asciutto, essenziale ed enigmatico al tempo stesso, rimanda in qualche modo alla poesia del Giappone, paese che Parise sognò molto e che visitò solo nel 1980, quando era già malato e gli restavano pochi anni per vivere ed elaborare la propria lingua letteraria.

La scrittura, spiega in un articolo scritto in risposta a Perché è difficile scrivere chiaro di Franco Fortini, unendo gli individui tramite la propria universalità, può addirittura farsi veicolo dei più elevati valori democratici. Non sorprende comunque che questo sentimento così semplice sia stato così largamente frainteso: d’altro canto, lo stesso Parise attribuisce alla poesia carattere di essenzialità e tuttavia produce testi sì di immediata comprensione linguistica ma anche percorsi da una sottile corrente di oscurità, storie sfuggenti che lambiscono lo zen della narrazione (baci goffi, tradimenti mai concretizzati, amori mai consumati ma solo sognati, sfiorati) rese con il suo periodare a tratti quasi argentino, certamente più raffinato di quanto lui stesso abbia mai ammesso, ricche di elementi dissonanti e misteriosi che sembrano legarsi per virtù delle segrete leggi della poesia, che poi sono le stesse segrete leggi del sogno.
Non vide più la coppia degli sposi, pensò a lei e sempre gli parve che fosse passato molto tempo. Invece erano passati solo pochi mesi ma il sentimento che lui e la giovane signora avevano provato (e qui descritto) era tale che essi, senza volerlo e senza saperlo, avevano vissuto e disperso nell’aria in così poco tempo alcuni anni della loro vita.
Amore di Goffredo Parise, “copertina” dei Sillabari, i cui testi sono tutti simili per struttura e per l’approccio obliquo al sentimento da cui sono ispirati, è caratterizzato da un’armatura di piccoli gesti quotidiani posta a protezione di un nucleo di gesti infantili, appercezioni sensuali e accadimenti prelogici. Un uomo anonimo incontra una donna altrettanto anonima ma «tuttavia bellissima» e se ne innamora, ricambiato (o almeno così pare dai gesti di lei, dai suoi sguardi nel corso dei loro rocamboleschi e casuali incontri a casa di amici o per strada). Ella è sposata a un uomo che ci viene descritto come brutto e brutale, ed è evidentemente infelice. Tuttavia, in risposta ad una frase forse troppo audace di lui, lei si rifugia nella propria dignità ferita e ciò che poteva essere non sarà mai. All’ambiguità dei sentimenti della donna per il protagonista del racconto s’unisce la descrizione del marito, visualizzato all’inizio come orrendamente deforme; sul finale del testo l’autore capovolge tuttavia il suo giudizio definendolo “buono e servizievole”, mentre una sorta di tumefatta bruttezza pare aver distorto i lineamenti di lei.
I dati sensoriali del protagonista sono l’unica bussola che l’autore-osservatore lascia al lettore-esploratore per orientarsi nel felice, minuscolo e tuttavia immenso mare-in-bottiglia delle sue storie. In un’intervista rilasciata a La Nuova Italia Goffredo Parise disse:
[…] credere di spiegare le cose è solo crederlo perché le cose non si chiariscono mai. Il rapporto fra l’uomo e le cose non è solo razionale ma anche sentimentale, dicano quello che vogliono. Bisogna lasciare un margine di discrezione, una forte componente interrogativa fra il soggetto e l’oggetto […]. E questo lo dico io che sarei un razionalista intellettualmente, ma per fortuna sono abbastanza tonto da non essere del tutto razionalista. Ringrazierò sempre Dio di questa tontaggine animale che mi permette di avere quelle bizzarrie, quegli scarti, quell’insofferenza per l’eccessiva razionalizzazione nelle cose. Se non avessi quello non sarei nulla.
Manuel Crispo ha pubblicato Il parrucchiere di Elvis sul terzo numero di Tre racconti. Per leggerlo, puoi scaricare il Pdf disponibile qui. Per sfogliare la rivista, invece, clicca qui.
Ho trovato interessante questo post perché fotografa perfettamente la prosa di Parise e ciò che provo leggendola. Dei Sillabari amo i personaggi, spesso eccentrici rispetto alla pacata quotidianità in cui sono immersi, per un guizzo o una sfasatura. I racconti nella loro semplicità mi lasciano sempre stordita per una manciata di secondi da un non so che (l’irrazionale? l’inquietudine? il non detto?)