Il patrigno indica il deserto. «Laggiù» dice.
«Ti fa riflettere» le sussurra dolcemente in un orecchio.
«Forse dopotutto là fuori c’è qualcosa di divino»1

Uno dei modi per raggiungere il Nevada è in auto, partendo dalla California; l’interstatale si snoda come una lingua di asfalto attraverso il deserto del Mojave, corre miglia e miglia nel nulla più completo, talvolta affiancata in lontananza da vagoni merci e sotto nuvole che sembrano andare ancora più veloci, fino a raggiungere Las Vegas.
Perché se la California è lo stato che meglio incarna il sogno americano, il Nevada è l’Eldorado dell’eccesso, dove dissoluzione e stravizio si mischiano ai colori sgargianti e alle luci a led delle insegne dei casinò della Strip; qui ogni giorno una Sfinge perplessa, una statua della Libertà in scala 1:2 e una Torre Eiffel meno corrosa dell’originale sono testimoni involontari del flusso economico e del degrado sociale, schierate a difesa di un luogo in cui tutto è concesso. È facile immaginarsi allora orde di abitanti e turisti provenienti dalla Città degli Angeli abbandonare il mite clima californiano per raggiungere la Città dei Prati, nella speranza che i propri desideri – quelli più illeciti – vengano esauditi il più facilmente e velocemente possibile.
Ma se Las Vegas, nel suo abito di città senza storia, nel corso del tempo si è solo adeguata al ritmo incessante del progresso e alla velocità delle proprie slot, il Nevada non è soltanto questo.
Il Nevada è deserto, è solitudine, è isolamento.
Il nome stesso, il fatto che Nevada significhi innevato – come sono innevate le vette della Sierra in inverno –, quando in realtà è uno dei luoghi della Terra a raggiungere le temperature più elevate e lo stato americano dal clima più secco, fa venire in mente uno scherzo malriuscito; fino alla seconda metà dell’Ottocento fu infatti proprio il clima a renderlo il meno popolato tra gli stati statunitensi, almeno fino alla scoperta del filone di Comstock. La presenza dell’argento e dell’oro stravolse l’economia e quindi il destino del Paese, con una conseguente impennata demografica, e nel 1905 un villaggio sorse in prossimità di alcune piccole fonti di acqua, divenendo un importante snodo ferroviario. Nel 1911, dopo appena qualche anno di espansione, questo villaggio venne ufficialmente riconosciuto come città: Las Vegas.
Sebbene la naturale inclinazione dei minatori al gioco di azzardo, fu però solo in seguito alla Grande Depressione del 1929 che la sua legalizzazione, e successivamente la legalizzazione della prostituzione in 12 contee e la velocizzazione dei procedimenti di matrimonio e divorzio resero il Nevada più simile a quello che è oggi, con il trasferimento del fulcro nevralgico dell’economia dai piccoli centri di estrazione mineraria all’area metropolitana di Las Vegas-Paradise, al cui interno risiedono oggi i tre quarti della popolazione.

Il Nevada, però, è anche tutto quello che sta attorno all’area metropolitana; è il reticolo stradale che si dipana dal centro fino alle estremità, oltrepassa qualche baracca prefabbricata che, con un distributore e un diner, costituisce uno di quei piccoli agglomerati in cui se nascerci è già di per sé un malus nella rincorsa alla vita, crescerci è definitivamente una condanna che rischia di trasformare i suoi abitanti nel fantasma di se stessi. Escluse queste rare eccezioni incrociate lungo il percorso, restano il deserto e qualche Ghost Town; se qualcuna è stata oggi restaurata per i turisti, le altre sono state abbandonate, e sono diventate preda dei curiosi, o dei nostalgici. O di quelli che hanno semplicemente voglia di farsi quattro chiacchiere con i fantasmi, appunto.
È proprio il deserto del Mojave a fare da fondale a molti dei racconti che compongono Nevada di Claire Vaye Watkins, edita da Neri Pozza nel 2019 e tradotta da Serena Prina – in lingua originale Battleborn, il motto che compare sulla bandiera del Silver State –, la raccolta d’esordio dell’autrice che è stata premiata con lo Story Prize, il Rosenthal Award e il National Book Foundation «5 Under 35».
Claire Vaye Watkins nasce in California nel 1984, ma cresce nel deserto del Mojave, tra Tecopa e Pahrump, tra la polvere sollevata dal vento di Santa Ana e l’eco delle leggende che ruotano alla figura paterna, Paul Watkins, numero due della Famiglia Manson. La Watkins fa i conti fin da bambina con la crudeltà e la curiosità di tutti quelli che la avvicinano per chiederle del padre e della comune hippy criminale fondata da Charlie Manson alla fine degli anni Sessanta: il padre di Claire, che godeva della fiducia di Manson, era colui che adescava le ragazzine per portarle nel ranch2 abitato dalla setta in quegli anni.
Il primo racconto della raccolta Fantasmi, cowboys, è un ibrido; a metà tra autobiografia e finzione narrativa, i fatti realmente accaduti che costituiscono la storia del Nevada si intrecciano con episodi biografici dell’autrice, dalla scoperta del filone d’argento di Comstock alla fine degli anni ‘60 dell’Ottocento fino alla nascita dei ranch western, la miniera d’oro di Hollywood. Il suo racconto, che ruota attorno alla figura del padre, si sviluppa in maniera non lineare, perché è il risultato del cocktail ottenuto dai propri ricordi dell’infanzia, dagli interrogatori processuali e dai pettegolezzi, rispecchiando perciò la mancata demarcazione tra ciò che è accaduto davvero e il modo in cui si può scegliere di raccontarlo.
Le dense volute di fumo rendono il luogo nebuloso, come se ciò che si sta facendo in quel momento non fosse vero. Come se si fosse già nel passato. Come se la vita non fosse una vita, ma un vecchio film nostalgico.3
Negli altri racconti invece, si erge prepotente la figura del deserto, con tutta la sua valenza fisica e simbolica; non è semplicemente lo sfondo ideale per le sue storie, ma racchiude in sé tutta la desolazione e la brutalità che contraddistingue l’universo letterario della Watkins; i suoi personaggi lo affermano senza dirlo, perché i loro gesti sono un tutt’uno con il deserto, se lo portano dentro e addosso. L’aridità fisica del luogo è speculare all’aridità che si manifesta nei dialoghi che via via leggiamo e che si è insinuata sotto la pelle dei protagonisti dei racconti.
In L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, il protagonista si trova accidentalmente su quello che ha le sembianze di un incidente automobilistico, in prossimità della Ghost Town di Rhyolite; vetri rotti, segni di frenata, flaconi di antidepressivi, foto di automobili d’epoca e un plico di lettere d’amore sono tutto ciò che il deserto restituisce a Thomas Grey, che inizia uno scambio epistolare unilaterale con lo scomparso. Il proprietario di tutti quegli oggetti, conservati come vere e proprie reliquie, è – o era, presumibilmente – una persona in carne ed ossa, ma nel proseguirsi delle lettere inizia ad assomigliare sempre più a un fantasma, ed è proprio l’evanescenza della sua figura a mettere in condizione Grey di aprirsi e riuscire a intraprendere paradossalmente uno dei dialoghi più umani che abbia mai avuto in vita, tanto che alla fine lo ammetterà anche a se stesso: nonostante continui a scrivere all’indirizzo a cui è risalito dalla prescrizione dei medicinali, lui non può associare l’uomo cui si rivolge al mondo vero, perché non può appartenere alla realtà più di quanto invece appartenga a Rhyolite.
Ci ho provato, Duane Moser, ma non riesco a immaginarla al 4077 di Pincay Drive. Non riesco a vederla a Henderson, in periferia, in un cul-de-sac, in una di quelle case prefabbricate con gli stucchi e il garage che sporge spalancato sulla facciata, come una bocca. Non riesco a vederla fermo come un insetto sotto a quei lampioni del colore del sapone antibatterico. A casa, la notte, sto seduto sulla veranda e guardo le luci di Reno sulle colline, con la città che marcia verso di noi come un esercito. Non è un caso che il primo passo di quello che chiamano “edificare” un lotto di terreno consista nel metterci attorno un recinto. Non riesco a vederla, Duane Moser, dietro a un recinto. Quando la vedo, la vedo qui, a Rhyolite, che raccoglie pezzetti di carboncino dalla scuola mezzo bruciata e che scrive il suo nome sulle fondamenta in cemento messe a nudo. 4
Il deserto in Il trapassato, il passato progressivo, il passato semplice non è più clemente: qui, due ragazzi di origine genovese in vacanza si avventurano da soli sprezzanti del pericolo e degli scherzi del sole estivo, ma solo uno di loro riesce a tornare indietro, mentre squadre di ricerca ed elicotteri si danno il cambio per trovare l’amico. Nell’attesa dell’ufficialità della sua morte, Michele si lascia condurre dal proprio tassista in un ranch fuori Las Vegas, una baracca di legno circondata da pavoni con i nomi delle contee del Nevada. Non è un ranch in cui poter semplicemente bere senza che gli venga chiesto il documento e aspettare – temere – notizie, e intanto annegare il proprio senso di colpa e la propria ignoranza, ma uno dei tanti bordelli in cui la prostituzione è legalizzata e sfama chi lo gestisce, dove le ragazze lo guardano ma in lui vedono soltanto una via d’uscita dalla propria miserabile condizione. In questo luogo, tra la birra che scorre a fiumi e l’illusione che Renzo, l’amico, possa essere ritrovato vivo, Michele rincorre l’amore e il desiderio di una nuova vita, ma sarà il gestore del locale a rivelargli quanto tutto quello che crede di vedere sia un bluff.
Da una simile tragedia non può venire fuori niente di positivo.
Avrebbe raccontato loro dell’insondabile paesaggio americano, delle innumerevoli droghe americane, delle infaticabili ragazze americane. O, se si fosse sentito malinconico, avrebbe potuto dire semplicemente: Era bellissimo. Da quelle parti c’erano più stelle di quante ne avessi mai viste. 5

In Man-O-War, il giorno successivo ai festeggiamenti dell’Indipendenza il deserto restituisce ad Harris il corpo di un’adolescente messicana riverso sul letto di un lago secco; sull’addome della ragazza è chiaramente visibile un livido che ricorda la sagoma di pugno. Il ventre è arrotondato e Harris non tarda a risalire alla durata dell’attesa; la sua ex moglie, prima di perdere il figlio che aspettavano, era solita scattarsi delle polaroid, che in seguito all’aborto spontaneo avrebbero avuto il retrogusto amaro di una cosa non portata a termine.
Sono trascorsi molti anni da quel ricordo, il protagonista adesso è solo, ma la sua esistenza è ancora scandita da vecchie abitudini non più necessarie, come se il tasto di stan by non fosse più stato premuto e il tempo non fosse più stato libero di trascorrere, né la sua vita di evolvere.
E allora è più forte di lui sperare di poter riprendere il filo lì da dove la storia si era interrotta, e sognare la presenza di una culla nel proprio salotto, anche se lui ha sessantasette anni e la ragazza è un’adolescente, anche se la ragazza è stata violata da chi avrebbe dovuto proteggerla dalle miserie della vita. Questo non sarà possibile, nelle storie della Watkins non c’è possibilità di riscatto: ciò che è perso, è perso per sempre.
Il dottore le avrebbe detto: Non è finita. È solo l’inizio. Avrebbe avuto bisogno di vitamine. Anche se sapeva bene, nel profondo del suo sostrato roccioso, che non poteva farci niente. Pensava: Avrà bisogno di un passeggino. Avrà bisogno di un seggiolino per la macchina. Come ciò che è sterile si attacca a ciò che è fecondo. Noi, pensava, avremo bisogno di una culla.6
In un’intervista, quando le viene fatto notare quanto tutti i suoi personaggi siano sopraffatti dal passato, la scrittrice risponde: «È così, nella mia esperienza. Una delle domande più importanti del libro è fino a che punto siamo davvero in grado di vivere nel presente senza passato pubblicizzato dai miti popolari del West americano. Le mie storie sono impregnate di questa atmosfera, soprattutto perché mi consente di iniziare a capire chi siano i personaggi, che cosa vedano e che cosa ne pensino: quale è l’interazione fra le loro esistenze interiori ed esteriori? […]Perché, per me, l’America è stata caratterizzata dalla tensione fra i valori che proclama e la loro messa in pratica, fra il suo mito e la realtà della sua fondazione. Trovo che questa sia una specie di ipocrisia stimolante».
I protagonisti della raccolta sono riflessi sbiaditi di esistenze vissute da altri, ma che sono filtrate nelle loro vene, rendendoli lo stampo di chi li ha preceduti, esseri unici e molteplici, ostaggi di una storia che basta a se stessa, ma che è anche la storia di mille altri abitanti del Nevada o di altri stati uniti occidentali: una storia di polvere e desolazione, l’illusione di un miraggio che è unicamente nella propria mente, e pertanto irraggiungibile.
Nel leggere queste storie mi è tornata in mente la parola disabitante, una parola incrociata durante la lettura di Absolutely nothing di Giorgio Vasta e Ramak Fazel, un libro che parla appunto di sparizioni nei deserti nordamericani. La parola è di per sé un paradosso, perché un luogo disabitato per definizione non può avere abitanti: è una condizione irrealizzabile. I protagonisti di questi racconti sono i disabitanti delle proprie vite, infatti proprio come nel libro di Vasta i disabitanti sono coloro che sono rimasti in luoghi abbandonati mangiati dal tempo e dallo spazio, protraendo anacronisticamente la propria condizione, i personaggi della Watkins continuano ad abitare vite fantasma che avrebbero dovuto essere abbandonate da tempo, ma che si sono cristallizzate fino a diventare uno specchio. Lo specchio dell’America.
Il becco si apre e si chiude, lasciando sgorgare il breve grido penoso di un bambino, un grido che alla fine significherà America.7
- Tratto da Fantasmi, cowboys, Nevada, C.V. Watkins.
- Il ranch di cui si parla è lo Spahn ranch, o anche Spahn movie ranch, all’epoca uno dei set più usati per i film western; divenne tristemente famoso per essere stata la base per la Famiglia Manson nel 1967. Il ranch viene menzionato anche in C’era una volta Hollywood, l’ultimo film di Quentin Tarantino.
- Tratto da Fantasmi, cowboys, Nevada, C.V. Watkins.
- Tratto da L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, Nevada, C.V. Watkins.
- Tratto da Il trapassato, il passato progressivo, il passato semplice, Nevada, C.V. Watkins.
- Tratto da Man-O-War, Nevada, C.V. Watkins.
- Tratto da Il trapassato, il passato progressivo, il passato semplice, Nevada, C.V. Watkins.