Dago Red di John Fante

Conoscere un autore partendo dai suoi romanzi di successo e concludere con i suoi scritti d’esordio è a tratti un fatto scomodo, ma molto, molto diffuso. Così è accaduto a me, che di John Fante pensavo di conoscere tutto, la fotografia dell’autore sulla copertina dell’opera omnia a squadrarmi da un ripiano della mia libreria, quando Dago Red mi si è parato davanti al naso una mattina, in libreria, non quella di casa bensì quella enorme del centro. È la raccolta dei primi racconti di Fante, che dal 1932 cominciano a comparire su alcune riviste di punta dell’epoca, andando a comporre le salde radici dei suoi romanzi più noti, primo su tutti Aspetta primavera, Bandini.

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Dago Red è celebrazione e ferita, il palco su cui John Fante mette insieme una povertà tragicomica, quella delle sue radici famigliari, un motore inesauribile; ma è anche malinconica rievocazione di una dimensione che sempre e inevitabilmente dimorerà nella sua carne – come nel pranzo in famiglia di Casa, dolce casa.

E insomma, sarò di nuovo tra la mia gente, lì, al pranzo di benvenuto preparato da mia madre, e mio padre, mia sorella e mio fratello saranno radunati intorno al tavolo. L’altro fratello, quello più piccolo, che ha tredici anni, se ne sarà andato via ridendo del linguaggio zoppicante di mio padre, che di anni ne ha cinquantadue. Al suo fianco sarà seduta mia sorella, che ne ha diciassette, e vicino a lei mio fratello Mike, diciannovenne, ed entrambi mangeranno in silenzio come mia madre, che ha gli occhi troppo, troppo grandi, quarantanove anni, un corpo spezzato, i capelli ingrigiti sulle tempie, una sordità che avanza. Io ho ventuno anni, e capisco tutti loro più di quanto si capiscono l’uno con l’altro.

Una delle figure che con maggior potenza emerge dalla penna dell’autore è quella del padre, Nick Fante, muratore umorale e beone. Il suo è il personaggio dello squilibrio, l’incarnazione forte e disperata di un autoritarismo figlio dell’ignoranza, ancorato ai valori e alle gerarchie del meridione italiano trapiantato in America. Nick Fante sa parlare la lingua dei suoi quattro figli, incarna quella goliardia e quel senso di gioco proprio dell’infanzia, ma è una bomba a orologeria, un padre che decide per tutti il tempo e il modo di ogni cosa. C’è, in lui, la struggente condizione dell’alcolismo, il limite precario tra realtà e illusione, e l’angoscia, costante, della povertà imminente.

Ogni inverno, mio padre fioriva di risolute intenzioni e nuove idee per liberarsi dai debiti e migliorare le condizioni della casa. Arrivava a casa a metà pomeriggio con un secchio di vernice e si metteva a tinteggiare una stanza. Per un paio d’ore se ne stava lì a lavorare fischiettando e canticchiando. Era felice, e riusciva a far risuonare la casa di quel suo spirito cordiale, sicché tutti ne eravamo contenti. Poi a un tratto la stanchezza s’impadroniva di lui. Rimetteva il coperchio alla vernice e si sedeva di fronte alla finestra, a rimuginare sulla neve che gli impediva di guadagnare. Tornava a essere pericoloso. Non ci potevamo avvicinare. L’indomani avrebbe completato il lavoro. Ma quell’indomani non arrivava mai.

Con una prosa ancora acerba ma già in grado di fotografare la cornice ironica e instabile dell’esistenza umana, John Fante ci racconta i conflitti famigliari, i lutti improvvisi, le storie della sua infanzia e la fortissima componente cattolica, l’educazione scolastica che sembra più votata al pentimento che all’istruzione; una dimensione, quest’ultima, che l’autore traccia su carta con prepotenza, infilando una parola dietro l’altra come se fosse tutto contenuto nel medesimo respiro. Ed è forse in questi racconti, in particolare, che affiora la vera natura dell’autore, quella straordinaria capacità di corrodere fino al midollo le sue esperienze, trasformarle in materiale per raccontare una verità in qualche modo rinnovata e intrisa di quell’umorismo privo di speranza che caratterizza tutta la sua opera di scrittore, e di colui che fino alla fine è rimasto sempre il figlio di un muratore emigrato in America.

E allora, alla fine di tutto, dopo aver chiuso il libro, mi sono ritrovata a pensare che in fondo sia stato un bene aver incontrato John Fante molto presto nella mia vita, averlo amato con lo stesso fervore di chi sceglie un esempio da seguire per non ritrovarsi smarrito o fatto a pezzi da sé stesso, e che Dago Red sia arrivato al momento opportuno, per ricordarmi che alcuni scrittori sono una scoperta sempre, e che tornare all’inizio partendo dalla fine, toccare le radici quando già si son ammirati i fiori, può essere una vera fortuna, la conferma che a volte ritrovare le origini può donare nuova luce alle cose.

Bianca Bertazzi ha pubblicato Polvere sul terzo numero di Tre racconti. Per leggerlo, puoi scaricare il Pdf disponibile qui. Per sfogliare la rivista, invece, clicca qui.

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