Il 2020, un anno che segnerà la nostra memoria collettiva. Come molti, anche noi di Tre racconti abbiamo cercato di colmare il nostro bisogno di conoscenza, di approfondimento, di evasione e, più in generale, il nostro bisogno di consolazione (per parafrasare il titolo di un bellissimo testo di Stig Dagerman) attraverso il potere delle parole.
Per salutare questo 2020 abbiamo raccolto un po’ di letture e di visioni e di ascolti che ci hanno accompagnato durante quest’anno singolare. Si tratta di cose piccole, ma buone (anche per il 2021).
Buon anno. La redazione.

Maria Di Biase
Sarebbe disonesto andare a pescare nella memoria un titolo adatto a questo intervento; la verità è che negli ultimi mesi ho letto pochissimo, una trentina di libri al massimo.
Il racconto più bello del 2020, perciò, diventa una canzone che mi ha colpito al cuore per la seconda volta. Il colpevole è mio padre, il movente è il mio compleanno, l’arma del delitto è il doppio vinile di Simon & Garfunkel, quello del famoso concerto che i due tennero a Central Park il 19 settembre del 1981.
Ci sono una manciata di artisti che mi danno un conforto avvolgente e Paul e Art sono tra questi. Così, assieme alle altre, ho ritrovato – riscoperto, in un certo senso – The Boxer, una ballata autobiografica scritta da Paul Simon nel 1968.
Il testo è un accordo tra la frustrazione che l’autore provava in quel periodo a causa dei ritmi serrati di lavoro e una serie di rimandi biblici. È, prima di tutto, il racconto di un ragazzo che abbandona la famiglia per trasferirsi a New York. La città lo delude: le prostitute lo tengono al caldo, ma nessuno gli offre una vera occasione. Per questo desidera tornare a casa, a casa dove «the New York City winters aren’t bleeding me».
La storia sembra svanire in una resa, ma nell’ultima strofa* lo scenario cambia:
In the clearing stands a boxer
And a fighter by his trade
And he carries the reminders
Of every glove that laid him down
Or cut him till he cried out
Nella radura c’è un pugile, uno che combatte di mestiere perciò è abituato a prendere colpi. Uno che ricorda bene i guantoni che l’hanno buttato giù e l’hanno ferito fino a farlo gridare di rabbia e vergogna. Allora dice: “Me ne vado, me ne vado”. Lo dice, però non si muove, e non si muove perché «the fighter still remains», il combattente resiste e rimane.
* Nella versione originale, la canzone si chiudeva con una quarta strofa. Gli anni sono passati e il giovane è diventato vecchio, abbastanza vecchio da insegnarci un’ultima lezione: «after changes upon changes, we are more or less the same; after changes we are more or less the same».
Andrea Boschi
Recentemente ho terminato la visione della serie Tv Yellowstone, un western moderno ambientato in Montana e che ha come protagonista principale un’intera famiglia che gestisce un ranch gigantesco. Uno dei componenti, figlio del padrone del ranch, è sposato con una nativa americana e i due hanno un rapporto difficile anche a causa della distanza culturale che ancora esiste tra le due famiglie. È uno dei tanti conflitti, una delle tante sottotrame della serie ed è anche, a mio parere, quella più debole. Nonostante la serie racconti molto bene le dinamiche moderne e gli interessi che coinvolgono proprietari terrieri e grandi investitori della finanza, è nel raccontare quel preciso conflitto familiare che cade forse un po’ troppo nel classico stereotipo del nativo candido e ingenuo, legato in maniera spirituale alla terra e alla natura. Così, guardandolo, mi è venuto in mente il bel racconto Danze di guerra di Sherman Alexie, titolo anche della raccolta, che ha invece la sua forza proprio nel riuscire a costruire tutta la narrazione sull’equivoco creato dagli stereotipi e sul conflitto, anche generazionale, riguardante l’identità. Alexie lo fa raccontando la storia di un uomo che, attraverso il confronto con il proprio padre, seppur con toni ironici, divertenti e dialoghi sempre spiritosi, si chiede quanto senso abbiano ancora certe tradizioni e riti legati al passato che rischiano di mettere quasi in ridicolo l’identità stessa dei nativi, invece di tutelarne i valori e la cultura, con tutto il dolore che questa consapevolezza porta.
Paola C. Sabatini
Ho iniziato l’anno leggendo due bei racconti che non conoscevo: uno di Goncarov – La malattia malvagia, preludio del suo romanzo più famoso Oblomov – e l’altro di Anatole France – Il prefetto della Giudea, un piccolo gioiellino; l’ho chiuso con Midland a Stilfs di Thomas Bernhard, una mini-raccolta che contiene Il mantello di Loden, un racconto che consiglio a chi ancora non avesse mai letto questo autore perché racchiude tutti gli elementi tipici della sua prosa: stile ossessivo, alta montagna come ambientazione, personaggi costretti a subire scelte altrui, situazioni esilaranti e, dulcis in fundo, l’immancabile suicidio. Nulla di deprimente, però. Il fatto è che l’ironia di Bernhard, se la si coglie, è un buon antidoto contro la solitudine (come la definirebbe D.F. W.) e anche un toccasana per chi teme la realtà perché, come direbbe lui, la vita non è altro che una ripetizione della ripetizione che rapidamente si esaurisce nella monotonia, basta affrontarla nel modo giusto. E allora, avanti tutta!
Andrea Storti
Se penso ai racconti letti quest’anno, ce n’è uno che proprio non mi abbandona da quando l’ho letto durante il primo lockdown. Si tratta di Acqua che scola dalla groppa d’un cane nero, di Kelly Link, contenuta nella sua raccolta Ne succedono anche di più strane, Donzelli Editore.Una giovane coppia, il primo incontro con i genitori particolari di lei, dei cani minacciosi e una proposta di matrimonio che non vuole essere accettata. Parrebbe una storia quasi normale se non fosse per tutta una serie di particolari strani, bizzarri, sul limite dell’orrorifico. Una storia che pare d’amore ma che si rivela essere una storia di mancanze, di perdite. E poi c’è quella sensazione che riempie il lettore durante la lettura, quella sensazione che, lo ammetto, è la parte più stimolante di certi racconti, ovvero il sentire di riuscire a capire grossomodo la storia nella sua interezza, ma percependo che c’è sempre qualcosa che sfugge, magari un qualcosa di piccolissimo, che però potrebbe essere fondamentale.Kelly Link è un’autrice che merita di essere scoperta.
Simone Giulitti
Il 2020 ci ha dimostrato come il genere fantascientifico si possa trasformare, in modo veloce e inaspettato, nella nostra quotidiana realtà. Un pregio della migliore fantascienza è quello di saperci far riflettere sulla contemporaneità, pur narrando di mondi lontani nello spazio o nel tempo, proprio come in Pechino Pieghevole di Hao Jingfang, contenuto nell’omonima raccolta edita da Add Editore. L’Ultra-Irrealismo cinese di Jingfang è radicato nella contemporaneità e nelle sue contraddizioni, e ci mostra dei futuri che potrebbero essere facilmente verosimili. Ma anche nei futuri più oscuri l’umanità riesce a riscattarsi facendo appello ai migliori sentimenti che la caratterizzano, come l’amore di un padre per la figlia, che in Pechino Pieghevole è il motore che spinge il protagonista a correre rischi enormi pur di trovare il denaro per pagare gli studi della sua bambina. Sono i buoni sentimenti, i grandi sacrifici ma anche i piccoli gesti quotidiani che ci aiutano a superare le difficoltà e ad andare avanti con la speranza di un futuro migliore, sia esso fantascientifico o meno.
Linda Scapigliati
Per me il 2020 è stato un anno strano ma non per la più ovvia delle ragioni: ha significato anche lasciare la mia città e trasferirmi “un po’ più su”, quanto basta perché nel momento in cui sto scrivendo fuori dalla finestra ci sia la neve e non il mare con la sagoma dell’Isola d’Elba che da anni sono abituata a vedere lanciando un occhio oltre il vetro. Questo trasloco ha avuto un piccolo effetto collaterale: scegliere quali libri portare, quali abbandonare temporaneamente e quali invece leggere per sfoltire le tante – troppe – letture lasciate in sospeso negli ultimi anni. Ecco perché il 2020 è stato un anno di recuperi “sfoltisci libreria”, e tra tutti, i due libri che davvero mi sento di consigliarvi solo molto diversi tra loro: il primo è Guerra e Pace, il libro-mondo di Lev Tolstoj ambientato tra 1805 e 1820, in cui la Storia si rivela intrecciando le guerre napoleoniche e la campagna di Russia con le azioni dei personaggi delle due famiglie protagoniste – i i Bolkonskij e i Rostov –; se non proprio rapida, è di sicuro una lettura da fare nella propria vita. Il mio secondo consiglio è la raccolta Questa è l’acqua di David Foster Wallace: se per Tolstoj sono necessarie poco meno di duemila pagine per descrivere la Storia, i due racconti Solomon Silverfish e Il pianeta Trillafon e la Cosa Brutta, assieme al discorso tenuto alla cerimonia di laurea del Kenyon College Questa è l’acqua, sono più che sufficienti per permettere a D. F. W. di spiegarci la Vita.
Andrea Siviero
Il 2020 è stato per me un anno di grandi recuperi: London, Cheever, Bernhard mi hanno accompagnato per gran parte di quest’anno inquieto. Ma è stato un grande classico a conquistarmi con uno dei suoi racconti forse tra i meno celebrati, ma sicuramente tra i più significativi (per l’influenza sulla letteratura successiva). Il grande classico è Čechov e il racconto è La mia vita – Racconto di un provinciale, un testo che condensa e anticipa due grandi temi che caratterizzeranno il Novecento europeo: il tema dell’inettitudine alla vita e il tema della ribellione alle convenzioni della società (che nel racconto si traduce nella ribellione alla vita borghese in favore della vita dell’operaio). Il racconto di Čechov l’ho letto ad aprile, nel periodo più duro del nostro isolamento collettivo. Vi lascio, per il 2021, una breve poesia che ho scritto in quei giorni, in cui ho incastonato una citazione del racconto:
Oggi sono entrato in un mio ricordo futuro.
Come se fosse già passata altra vita (altri venti o trent’anni)
sono tornato a questo pomeriggio di aprile.Era di nuovo
il giardino
noi due
un racconto di Čechov
e la fantasia di fiori arancioni
della coperta che abbiamo allargato
sul prato senza fiori.“Com’è nuovo e insolito tutto questo, benché la primavera si ripeta ogni anno!”
È una frase del racconto
che avrei voluto leggerti ad alta voce
mentre parlavamo di maggio
come se fosse un pianeta lontano.Ecco, questo accadeva solo oggi,
ma mentre ti guardavo
avevo già sulla punta delle labbra
le parole“Ti ricordi?”.
Davide Bovati
Anche per me è il 2020 è stato tempo di grandi recuperi. E se ho dedicato gran parte della mia clausura ai lunghissimi formati come Dickens, sul fronte forma breve mi sono preoccupato di recuperare alcuni imprescindibili, tra cui Ernest Hemingway. Scegliere il migliore tra i racconti dell’autore americano è praticamente impossibile, ma qualche giorno fa ho visto uno spezzone di Un giorno di ordinaria follia che mi ha ricordato le prime battute de Gli uccisori, classica gangster story contenuta ne I quarantanove racconti. Come Michael Douglas, anche due sicari hanno qualche problema con il menù di una tavola calda: tutto quello che vorrebbero ordinare è disponibile solo per la cena. Hanno due soprabiti identici troppo stretti per loro e le loro bombette li fanno sembrare due attori di vaudeville, ma l’aspetto comico e le battute sarcastiche che rivolgono ai garzoni fanno parte del copione che Hemingway ha scritto per loro, mentre aspettano che il loro obiettivo si presenti nella tavola calda. Questo è uno tra i tanti racconti in cui Nick Adams, alter ego dell’autore, prova a diventare uomo affrontando la violenza del mondo; ma è estremamente significativo sia per l’ambientazione, sia per il dialogo tra i due sgherri, che sotto un’apparente comicità nascondono qualcosa di pronto a esplodere. Dopo averlo letto, chissà che non vi venga in mente la prossima volta che guardate un film di Tarantino, o dei fratelli Coen.
Quanti spunti interessanti! Grazie per questa bella condivisione. Farò tesoro della vostra esperienza.