Prima o poi ci si trova a ripensare alla propria giovinezza. Sei poi sei uno scrittore come Heinrich Böll ripercorrere la strada della giovinezza significa anche scrivere un racconto che diventa un modello esemplare di autobiografia.
Il racconto, in breve
Heinrich Böll, scrittore tedesco vincitore del Nobel per la letteratura nel 1972, celebre per i romanzi Opinioni di un clown, E non disse nemmeno una parola, L’onore perduto di Katharina Blum e Foto di gruppo con signora, e per numerosi racconti che hanno rivelato (anche in maniera satirica e umoristica) le contraddizioni della Germania federale del secondo dopoguerra, in Che cosa faremo di questo ragazzo? Ovvero: qualcosa che abbia a che fare con i libri, testo autobiografico pubblicato nel 1981, ha raccontato la sua adolescenza nei primi anni della Germania nazista.
Böll è nato a Colonia nel 1917 e nel gennaio 1933, anno in cui inizia il racconto, è un quindicenne che ha vissuto praticamente tutta la sua esistenza nella Germania del primo dopoguerra, un Paese schiacciato da una delle più drammatiche crisi economiche del Novecento. Cresciuto in una famiglia cattolica di modesti artigiani, Böll è un giovane che non nutre alcuna simpatia per l’ideologia nazista. Il racconto è suddiviso in capitoli brevi in cui l’autore rievoca, sullo sfondo dell’ascesa e del consolidamento del potere da parte di Hitler, il suo rapporto con la scuola e con le istituzioni naziste.
Su questo filo sottile Heinrich Böll ha scritto un racconto che non è solo una preziosa testimonianza della vita nella Germania nazista; non è solo un’opera che, in linea con il resto della produzione letteraria dello scrittore tedesco, affronta il tema del dissenso. Il testo di Böll è prezioso anche per capire come funziona la memoria e come si costruisce un testo autobiografico mescolando le esperienze personali con la Storia.
Le asincronie della memoria
Fin dal primo capitolo del suo racconto autobiografico, Heinrich Böll mette in guardia il lettore circa l’asincronia di alcuni suoi ricordi personali rispetto agli eventi storici che fanno da contorno alla narrazione. Böll ha scritto Che cosa faremo di questo ragazzo? nel 1981 e durante la scrittura si è reso conto che alcuni suoi ricordi, che gli apparivano nitidi e incontestabili, non coincidevano perfettamente con gli avvenimenti storici che riteneva correlati.
[…] dubbi motivati a proposito della mia memoria; tutto questo è accaduto da quarantaquattro a quarantotto anni fa e non ho a disposizione né appunti né note. Sono andati bruciati e dispersi in una mansarda della casa al numero 17 del Karolingerring a Colonia; sono diventato incerto anche della sincronizzazione di esperienze personali e avvenimenti storici: così ad esempio avrei assolutamente scommesso che era l’autunno del 1934 quando Göring, in qualità di presidente dei ministri prussiano fece decapitare sette giovani comunisti di Colonia. Avrei perduto la scommessa: era solo l’autunno del 1933 quando accadde.[1]
Può sembrare subito una grande contraddizione; uno potrebbe chiedersi: ma che autobiografia è un’autobiografia che ammette l’errore, l’imprecisione, la confusione di certi piani temporali? E invece, tra le stesse righe di questa premessa, l’autore ci fornisce due dati importanti: 1) quello che sarà raccontato dopo ha la valenza della memoria del singolo: memoria che non ha la pretesa di farsi fonte oggettiva, ma soprattutto non ha la pretesa di essere esaustiva nei confronti del luogo e del periodo storico narrato (in questo caso la Germania tra il 1933 e il 1937); 2) l’imprecisione della memoria, messa di fronte al dato storico, non può che arricchirsi di sfumature. Mi spiego meglio: a ripercorrere la propria giovinezza in relazione alla Storia si può scoprire come ciò che in origine era vissuto come un processo lento e graduale, in realtà fosse stato molto più rapido di quello che si pensava. Böll ritorna su questo concetto anche all’inizio del secondo capitolo, quando scrive:
Mi inoltro ora con diffidenza sul sentiero “realistico”, cronologicamente confuso – con diffidenza nei confronti delle dichiarazioni autobiografiche mie e altrui. Per l’atmosfera e la situazione posso garantire, anche per i fatti connessi a quelle atmosfere e a quelle situazioni, non posso garantire, invece, messa a confronto con fatti storici controllabili, per la sincronizzazione.[2]
La realtà, o «sentiero “realistico”» come la definisce più precisamente Heinrich Böll, nel caso dell’autobiografia non può prescindere dal confronto con i fatti storici. Tuttavia, allo stesso tempo, nel caso della ricostruzione di un evento personale, prevalgono altri elementi: l’atmosfera, la situazione. Tali elementi diventano il centro della memoria, e talvolta finiscono per essere traslati in momenti più o meno vicini al fatto storico, quello impresso nella memoria collettiva. Riprendendo l’esempio precedente, quello dell’esecuzione dei sette giovani comunisti, Böll scrive:
Se nei miei ricordi ho collocato questo avvenimento un anno più tardi, nell’autunno del 1934, ciò può avere a che fare con il 30 giugno 1934, questo estremo brutale strappo verso la definitiva presa del potere; ricordo quel giorno come un segnale decisivo: può essere dovuto al fatto che il periodo fino al 30 giugno mi è apparso relativamente tranquillo.[3]
La notte tra il 30 giugno e il 1° luglio 1934 è passata alla storia come la notte dei lunghi coltelli. Si trattò di un’epurazione ordinata da Adolf Hitler che coinvolse i vertici delle Sturmabteilungen, o SA, il primo gruppo paramilitare del partito nazista. Per Böll quell’evento fu il momento in cui si rese effettivamente conto dell’irreversibilità del percorso che aveva intrapreso la Germania da quando era salito al potere Hitler. Il trauma provocato da quella strage di Stato fu tale da creare un disallineamento nella sincronia tra la Storia e i ricordi dello scrittore: pur sapendo che Hitler era stato nominato cancelliere nel 1933, tutte le peggiori nefandezze del regime dovevano essere per forza accadute dopo il 30 giugno del 1934, dopo la notte dei lunghi coltelli. Anche l’esecuzione dei giovani comunisti a Colonia doveva essere accaduta dopo quel 30 giugno perché «il periodo fino al 30 giugno mi è apparso relativamente tranquillo» scrive a posteriori Böll.
Eppure il 1933 per la Germania era stato anche l’anno delle Bücherverbrennungen, i roghi di libri ordinati dalle autorità naziste per eliminare tutti i libri non corrispondenti alle ideologie del partito. Un evento che, nella memoria di un ragazzo appassionato di letture, avrebbe dovuto essere di ancora maggiore impatto. Perché ebbe un’influenza minore questo evento rispetto alla notte dei lunghi coltelli? Probabilmente perché la notte dei lunghi coltelli si cristallizzò nella memoria di Böll con un’immagine ben precisa e molto intima. Quel giorno il giovane Heinrich Böll comprò un’edizione speciale del giornale che riportava la notizia e poi fece questo:
[…] a casa tirai fuori dal cassetto della mia scrivania il pacchetto di figurine delle sigarette Alva, la serie che mostrava tutti quanti i notabili nazisti, e selezionai quelli che erano stati uccisi: era un pacchetto notevole. Ho conservato il ricordo dei volti di Heines e Röhm.[4]
Ecco come funziona la memoria, ecco come un piccolo episodio, tra i tanti che occupano la nostra vita, si cristallizza e aderisce alla Storia che scorre là, fuori da noi. L’autobiografia, in questo caso, serve a rimettere in ordine i pezzi, a ricostruire il puzzle completo.

Dimenticare, ovvero: ricordare bene
La musa dei nostri giorni non è la memoria, ma la Dimenticanza; e il solo edificio che possiamo contrapporre alle cattedrali della memoria, ricostruite con tanta intelligenza e passione da Frances Yates, è una grande cattedrale della dimenticanza creatrice, la Recherche di Proust. Non possiamo più ricordare. Portiamo troppi pesi – un passato troppo lungo, di cui conosciamo quasi ogni vestigio: un futuro, che ogni giorno ci sforziamo di prevedere; un presente che ci schiaccia con la quantità delle informazioni. Così, ogni giorno, dimentichiamo. Appena la nostra mente accenna a colmarsi e le immagini si affollano tumultuando davanti alla sua porta, noi la vuotiamo spietatamente, come un pozzo dove si è insinuata l’acqua marina. Gettiamo via letture, notizie, sensazioni, sentimenti, qualche volta senza aver tempo di scegliere. Come i leggerissimi e ilari eroi di un racconto di fantascienza, attraversiamo il tempo che ci è destinato con pochi pesi, con pochi ricordi, con pochi libri, e lasciamo la terra senza nessuna eredità dietro le spalle.
Ma i ricordi, che credevamo di aver rimosso, non muoiono così facilmente. Mentre noi continuiamo a vivere e dimenticare, essi piombano nelle dolorose acque del Lete, e lì, lontani dalla luce e dalla riflessione, restano lungamente a macerare: si contaminano, si confondono, cambiamo aspetto e natura. I fatti della nostra infanzia, un incontro casuale in treno, un’operazione matematica, la dimostrazione dell’esistenza di Dio, un quadro, un sogno, il volto di una donna, la pagina di un libro, un paesaggio lungamente contemplato, la notizia di un giornale scoprono di possedere i più singolari rapporti. Alla fine, le migliaia di ricordi, che ci avevano oppresso con il loro peso, distillano poche essenze, pochi segni, pochi profumi, incredibilmente ricchi, concentrati e sapienti. Non possiamo dire a che parte dell’esperienza appartengano, né cosa significhino: perché ognuno di loro ha molte facce e moltissime sfumature, intorno alle quali sembra ancora aleggiare l’eco delle esperienze abolite.[5]
Queste parole non sono di Heinrich Böll, ma del critico letterario italiano Pietro Citati. Le ho prese in prestito da un suo testo intitolato Gli uomini senza memoria, perché per parlare della memoria non si può prescindere dal suo negativo, inteso in senso fotografico, ovvero la dimenticanza. Senza la dimenticanza non c’è memoria, o meglio, è tutto talmente memoria da essere inutile. Si pensi per esempio a Funes, protagonista dell’omonimo racconto di Jorge Luis Borges. Funes è un uomo prodigioso, capace di ricordare qualsiasi cosa. Eppure, allo stesso tempo, Funes è un uomo incapace di «idee generali, platoniche»[6] perché impedito da un sovraccarico di dettagli e di informazioni sui particolari di ogni cosa. La memoria prodigiosa, allora, si fa prigione.
La memoria si misura continuamente con il vuoto della dimenticanza. Solo nel vuoto nero dell’oblio rifulgono i ricordi. Lo sa bene chi si misura con gli esercizi per la memoria: per ricordare bene non occorre tanto ripetere all’infinito nella mente il nome di una persona, per esempio, o il seme e la figura di una carta; per ricordare bene occorre associare il nome della persona o l’evento (pesco la donna di quadri) a un’immagine familiare o che è in grado di stimolare un’emozione. Da qui, se chiamati a risolvere una sequenza (ripetere i nomi di diverse persone, ricostruire da zero l’ordine di un intero mazzo di carte da gioco), la si risolverà costruendo una storia a partire dalle immagini associate ai nomi o ai singoli eventi. Questo è ciò che accade quando ricordiamo, e questo è ciò a cui attinge anche Heinrich Böll per costruire il suo racconto autobiografico. Nell’impossibilità di ricordare tutto, nell’assenza di documenti dell’epoca a cui attingere (gli appunti o eventuali diari sono andati perduti per via della guerra), lo scrittore si ritrova a fare affidamento unicamente su delle immagini da cui piano piano evolve il contesto. Sono spesso immagini di scuola a favorire i collegamenti tra la dimensione della memoria personale e intima dell’autore e la dimensione della Storia. Come detto in precedenza, dalle figurine dei gerarchi nazisti si rivela il ricordo della notte dei lunghi coltelli; in un altro caso emblematico, invece, riguarda la nomina di Hitler a cancelliere:
Io stavo a letto e leggevo, probabilmente Jack London, che avevamo preso a prestito da un amico nell’edizione della Büchergilde, ma può anche essere – oh, voi, capelli ritti degli esperti di letteratura, come vi liscerei volentieri! – che io leggessi contemporaneamente Trakl. La gigantesca stufa di maiolica nella cosiddetta stanza del bow window eccezionalmente ardeva e io le rubavo il fuoco per le sigarette (proibite) con lunghissime strisce di carta. Il commento di mia madre alla nomina di Hitler: «È la guerra», può anche essere stato: «Hitler, vuol dire guerra».[7]
Qualcosa che abbia a che fare con i libri
Nel corso di tutto il racconto i libri costituiscono un confronto e accompagnano la crescita del giovane Böll. Del resto il titolo, Che cosa faremo di questo ragazzo?, si completa con Ovvero: qualcosa che abbia a che fare con i libri. Questo sottotitolo allude al destino che si compie alla fine del racconto: l’assunzione come apprendista in una libreria (lavoro mantenuto da Böll per alcuni mesi, prima di essere arruolato nella Wehrmacht e partecipare alla Seconda guerra mondiale, sul fronte orientale e su quello occidentale).
Tra le varie letture citate da Heinrich Böll spiccano i nomi di alcuni autori francesi come Mauriac, Bernanos, Bloy, scrittori con una solida visione cattolica, e che proprio in quegli stessi anni – per quel che riguarda Mauriac e Bernanos perché Bloy era morto nel 1917 – si stavano schierando contro le ideologie fasciste e naziste. La lettura, allora, rappresenta per Böll non solo una fonte di formazione alternativa alla scuola, ma anche una forma di resistenza nei confronti del nazismo.
Oltre alle letture che Heinrich Böll aveva scelto per iniziativa personale (i già citati Bernanos, Mauriac, Bloy a cui si aggiungono Dostoevskij, Chesterton, Leonhard Frank) vi sono alcune letture scolastiche imposte dal regime. Caso emblematico è il Mein kampf di Hitler, di cui Böll ne descrive così il compito di riassumerlo (un compito che sottolinea una volta in più l’attitudine di Böll al dissenso e alla resistenza):
Non mi è rimasto molto delle letture di tedesco, ricordo soltanto un paio di autori, uno si chiamava Adolf Hitler, autore di Mein kampf lettura obbligatoria. Il nostro insegnante di tedesco, Schmitz, un uomo di acuta, spiritosa e ironica asciuttezza (per molti autori un po’ troppo asciutto!) colse l’occasione dei testi consacrati di questo Adolf Hitler per spiegarci la concentrazione espressiva, chiamata brevità. Ciò significava che dovevamo ridurre circa quattro pagine di Mein kampf in due pagine, possibilmente una e mezzo, “concentrare” questo indicibile tedesco dai periodi mal connessi – esiste anche un tedesco molto ben connesso! Si immagini: “concentrare” i testi del Führer. Io mi divertivo a smontare e a impacchettare di nuovo insieme quel tedesco. Lessi dunque Mein kampf con attenzione – e anche questa lettura non aumentò il mio rispetto per i nazisti della frazione di un millimetro. In ogni caso devo a Adolf Hitler un paio di due in tedesco che mi facevano proprio comodo, gli devo anche probabilmente – e così a scuola avrei studiato anche per la vita – una certa attitudine alla lettura e una tendenza alla brevità.[8]
Dove finisce l’autobiografia (bonus per scrittori)
C’è una domanda che viene posta di frequente a chi scrive e pubblica romanzi o raccolte di racconti: quanto c’è di autobiografico in quello che scrivi? Tale domanda, spesso, mette in imbarazzo l’autore che la riceve. Questo perché ogni risposta trascina con sé una certa dose di ambiguità. Dove finisce l’autobiografia e dove comincia la finzione? Ebbene, leggendo Che cosa faremo di questo ragazzo? di Heinrich Böll mi sono accorto di una piccola curiosità. Mi sono accorto come un frammento dell’autobiografia dello scrittore tedesco, un episodio vissuto ai tempi della scuola, si sia trasformato in materia per un romanzo. L’episodio, in breve, riguarda una lezione di educazione sessuale. C’è questo insegnante di religione che con un certo imbarazzo e riluttanza, ma in osservanza al programma scolastico, deve «informare sessualmente»[9] i ragazzi. Nel racconto autobiografico Böll la racconta così:
Comunque: lo fece, ci informò, con il viso rosso per la vergogna, le palpebre permanentemente abbassate, parlò del fatto che ci sono due sessi diversi, in modo dignitoso, per nulla ridicolo, ed eravamo ancora disposti a concedergli di aver assolto a questo compito, da molto tempo previsto, nella dolorosa consapevolezza del proprio dovere. Poi però venne l’attimo catastrofico in cui parlò – in relazione agli organi sessuali e alle loro funzioni – di “fragole alla panna”: il più giovane di noi aveva meno di diciotto anni, il più anziano ventidue, ed eravamo cresciuti in una città famosa e screditata non soltanto per la sua santità, ma anche per la sua prostituzione, ricca di tradizioni quanto di ampiezza e variazioni. Se già durante le parti meno imbarazzanti della sua conferenza, durante le spiegazioni balbettate, pronunciate a occhi bassi, avevamo soffocato le risate soltanto a fatica, adesso esse esplosero, ciniche, volgari, quasi mortali.[10]
Mentre nel romanzo Foto di gruppo con signora, lo stesso episodio diventa così:
Con voce soave egli [l’insegnante di religione] si serviva di una simbologia esclusivamente culinaria, paragonava – senza accennare neanche lontanamente a precisi particolari biologici – il risultato dell’accoppiamento, da lui chiamato il “necessario istinto di procreazione”, alle “fragole con la panna”, si perdeva in similitudini improvvisate che dovevano descrivere i baci leciti e quelli illeciti, dove le “chiocciole” avevano un’importanza che le ragazze non riuscirono mai a scoprire. Dobbiamo prendere atto che Leni, mentre quella voce soave, servendosi di un’incredibile simbologia esclusivamente culinaria, descriveva indescrivibili particolari sul bacio e sul coito, arrossì per la prima volta in vita sua (Margret), e siccome è una persona incapace di rimorso […] bisogna concludere che quella specie di istruzione sessuale deve aver colpito in lei dei centri sensibili finora rimasti oscuri.[11]
Da notare, inoltre, come cambia la reazione del protagonista: Böll ci rise su, trovò la situazione grottesca; Leni, la protagonista del romanzo, invece, prova vergogna, arrossisce. E guardate anche come cambia l’atteggiamento dell’insegnate di religione: nell’autobiografia è imbarazzato, rosso per la vergogna, mentre nel romanzo è tranquillo, professionale, spiega «con voce soave». Ecco allora dove finisce l’autobiografia; ecco dove confina con la finzione romanzesca. Tuttavia, non c’è da meravigliarsene di ciò, dopotutto lo stesso Heinrich Böll riguardo il rapporto tra autobiografia e romanzo una volta scrisse così:
Credo (di nuovo questo dannato credere!) che l’autobiografia di un autore si nasconda in tutta la sua opera.[12]
[1] Heinrich Böll, Che cosa faremo di questo ragazzo?, in Opere scelte Vol. II, I Meridiani. Mondadori, 2001. Traduzione di Silvia Bortoli (p. 678).
[2] Heinrich Böll, Che cosa faremo di questo ragazzo?, in Opere scelte Vol. II, I Meridiani. Mondadori, 2001. Traduzione di Silvia Bortoli (p. 680).
[3] Heinrich Böll, Che cosa faremo di questo ragazzo?, in Opere scelte Vol. II, I Meridiani. Mondadori, 2001. Traduzione di Silvia Bortoli (p. 695).
[4] Heinrich Böll, Che cosa faremo di questo ragazzo?, in Opere scelte Vol. II, I Meridiani. Mondadori, 2001. Traduzione di Silvia Bortoli (p. 700).
[5] Pietro Citati, Gli uomini senza memoria, in L’armonia del mondo, Adelphi, 2015. (pp. 74-75).
[6] Jorge Luis Borges, Funes, l’uomo della memoria , in Finzioni. Adelphi, 2003. A cura di Antonio Melis (p. 102).
[7] Heinrich Böll, Che cosa faremo di questo ragazzo?, in Opere scelte Vol. II, I Meridiani. Mondadori, 2001. Traduzione di Silvia Bortoli (p. 683).
[8] Heinrich Böll, Che cosa faremo di questo ragazzo?, in Opere scelte Vol. II, I Meridiani. Mondadori, 2001. Traduzione di Silvia Bortoli (p. 709).
[9] Heinrich Böll, Che cosa faremo di questo ragazzo?, in Opere scelte Vol. II, I Meridiani. Mondadori, 2001. Traduzione di Silvia Bortoli (p. 741).
[10] Heinrich Böll, Che cosa faremo di questo ragazzo?, in Opere scelte Vol. II, I Meridiani. Mondadori, 2001. Traduzione di Silvia Bortoli (p. 742).
[11] Heinrich Böll, Foto di gruppo con signora, in Opere scelte Vol. II, I Meridiani. Mondadori, 2001. Traduzione di Italo Alighiero Chiusano (pp. 38-39).
[12] Heinrich Böll, Postfazione a Guerra e Pace di Tolstoj, citato in Opere scelte Vol. II, I Meridiani. Mondadori, 2001. A cura di Lucia Borghese (p. LVII).