
Questo breve articolo vuole essere la storia di un incontro, quello tra il sottoscritto e la scrittura debordante, estrosa e geniale di Giorgio Manganelli. Fino ad oggi infatti, pur avendomi incuriosito da un po’ non avevo ancora mai avuto il piacere di fare la conoscenza del nostro autore del giorno. C’era stato, a essere sinceri, un fugace incontro in tempi andati, paragonabile a quello di due sconosciuti che si scambiano uno sguardo da un marciapiede all’altro. Avevo infatti recuperato all’usato una copia di Hilarotragoedia e senza sapere minimamente a cosa stessi per andare incontro lo avevo iniziato, scontrandomi immediatamente con la prosa ostica, barocca e ricercata di Manganelli.
Il libro inizia così:
Se ogni discorso muove da un presupposto, un postulato indimostrabile e indimostrando, in quello chiuso come embrione in tuorlo e tuorlo in ovo, sia, di quel che ora si inaugura, presentale assioma il seguente: CHE L’UOMO HA NATURA DISCENDITIVA.[1]
Non proprio una letturina da ombrellone ecco. Qui mi sono detto di fare una pausa, documentarmi un po’ sull’autore e cercare qualcosa di più accessibile per avvicinarmi alla sua scrittura. Ho pensato quindi di ripiegare su Centuria una raccolta di racconti del 1979 che valse al nostro autore il premio Viareggio.
Uno dei pregi dei racconti, e uno dei motivi per cui mi piace leggerli, e che possono dare un’idea chiara dello stile di un autore, permettendo di avvicinarlo a piccoli passi e senza l’impegno di un viaggio in un romanzo che potrebbe magari essere impervio e ricco di imprevisti. Questo vale naturalmente per gli autori, e ce ne sono tanti, che praticano entrambi i generi narrativi. Certo il ragionamento non è sempre valido, e non sempre gli scrittori sanno destreggiarsi con uguale abilità in entrambi i mondi, ma quella su Centuria e su Giorgio Manganelli si è rivelata, col senno di poi, essere una scommessa azzeccata.
Volendo definire brevemente questo libro straordinario possiamo dire che Centuria è una raccolta di cento brevi racconti, ciascuno contenuto in una singola pagina. L’ispirazione viene in parte in ossequio a un preciso progetto letterario, e in parte per caso; l’autore era infatti in possesso di alcuni fogli da macchina da scrivere un po’ più grandi del normale, da qui la tentazione di usarli come limite e argine alla scrittura, e la sfida di condensare tutto in una struttura rigida e fortemente limitante, che Manganelli stesso paragonò a quella del sonetto.
L’edizione oggi in commercio, pubblicata da Adelphi, contiene oltre alle cento centurie originali altre trentuno centurie, parti di un progetto di continuazione dell’opera che non ha mai preso corpo. Oltre alle centurie è presente una nota filologica di Paola Italia, che ha curato l’edizione, e che oltre a documentare dettagliatamente il lavoro svolto sui manoscritti propone diverso materiale interessante e utile ad approfondire la conoscenza del nostro.
Tra gli stralci più illuminanti sull’opera quello di un’intervista all’autore di Stefano Giovanardi, apparsa sull’ Avanti! dell’8 aprile 1979, nella quale si può leggere:
Ho l’impressione che i raccontini di Centuria siano un po’ come romanzi cui sia stata tolta tutta l’aria. Ecco: vuole una mia definizione del romanzo? Quaranta righe più due metri cubi di aria. Io ho lasciato solo le quaranta righe: oltretutto occupano meno spazio, e lei sa bene che con i libri lo spazio è sempre un problema enorme.[2]
Da questa dichiarazione emergono bene diversi tratti della personalità di Manganelli, l’ironia soprattutto ma anche la chiarezza di chi aveva un’idea ben precisa di cosa significhi scrivere e fare letteratura.
Letteratura e neoavanguardia
Sicurezza dei propri mezzi, disposizione ad andare controcorrente e forse anche la capacità di prendersi poco sul serio erano i mezzi indispensabili per far parte di un’avanguardia letteraria. O meglio neoavanguardia, il nome con cui comunemente si identifica il gruppo di scrittori caratterizzato dal rifiuto della tradizione e dallo sperimentalismo linguistico e letterario.
Scriveva Manganelli, ne La letteratura come menzogna uscito per Feltrinelli nel 1967 e successivamente ripubblicato da Adelphi:
Anarchica, la letteratura è dunque un’utopia; e come tale ininterrottamente si dissolve e si coagula. Come è proprio delle utopie, essa è infantile, irritante, sgominevole. Scrivere letteratura non è un gesto sociale. Può trovare un pubblico; tuttavia, nella misura in cui è letteratura, esso non ne è che il provvisorio destinatario. Viene creata per lettori imprecisi, nascituri, destinati a non nascere, già nati e morti; anche, lettori impossibili. […] La parola letteraria è infinitamente plausibile: la sua ambiguità la rende inconsumabile. Proietta attorno a sé un alone di significati, vuol dire tutto e dunque niente.[3]
Qualche anno dopo pubblicherà Centuria, non so se può essere considerato un campione esaustivo dello stile dello scrittore, soprattutto in virtù della sua poliedricità, ma i tratti salienti mi pare siano tutti inquadrati.
Centuria, cento mondi in un libro

Al lettore profano i racconti raccolti in Centuria si presentano come tanti piccoli quadretti surrealisti. Magari il paragone sarà azzardato, ma certi tratti mi hanno ricordato un po’ l’atmosfera che si respira nei racconti di Rodolfo Wilcock, del quale ho scritto un po’ di tempo fa.
Protagonisti dei racconti sono generalmente, ma non esclusivamente, individui intenti in un ampio arco di occupazioni che vanno da semplici gesti quotidiani a cose un tantino più impegnative, come ad esempio fare l’inventario del mondo. Racconti a metà tra il mondo della realtà e quello dell’immaginazione, sempre pervasi da un’atmosfera di sogno ma allo stesso tempo, in qualche modo, saldamente ancorati alla realtà.
Non ho mai avuto troppa pazienza con i ritardatari, ma credo che per un bel pezzo ogni volta che mi capiterà di aspettare, mi torneranno in mente le parole della centuria numero trentatre e li penserò con maggiore benevolenza, e al ritardo quasi come una benedizione:
Col tempo, è diventato un appassionato dell’attesa. Egli ama aspettare. Puntualissimo, detesta i puntuali, che lo privano, con la loro maniacale esattezza, del piacere incredibile di quello spazio vuoto, in cui non accade nulla di umano, di prevedibile, di attuale, in cui tutto ha l’odore esilarante e indefinibile del futuro.[4]
Questo è il bello dei racconti di Giorgio Manganelli, ogni lettore può leggerci qualcosa di diverso, ricondurli a una situazione personale, magari banale o quotidiana, o usarli come mezzo catalizzatore per riflessioni più profonde. Quasi come uno strumento di meditazione.
Oltre alle storie in sé è bello farsi trascinare anche dalla prosa di Manganelli, che si avvolge su se stessa come le spire di un serpente, uno stile concettoso che sa però, a suo modo, essere anche divertente. Leggiamo nella centuria trentotto:
In certo modo, egli oggi è pensoso sul fatto di essere pensoso, giacché la sua pensosità ha toccato un tema che, nell’insieme, non gli sembra adeguato o, più esattamente, gli sembra inficiato da una fondamentale riluttanza alle idee chiare e distinte, e ciò gli comunica un vago malessere, sarà meglio depotenziare a disagio. Il tema è l’amore.[5]
Oltre alla realtà nei racconti di Centuria troviamo diverse escursioni nel mondo del fantastico, con protagonisti cavalieri e draghi, fate e pirati fantasma, fino ad arrivare ad atmosfere che oggi definiremmo weird:
Bruscamente si volta, non c’è nulla alle sue spalle, ma tuttavia ha la sensazione che qualcosa sia scomparso, che un essere abbia bruscamente deciso di astenersi dall’esistere. Egli fissa il vuoto, come per far capire che guarda il luogo in cui era ciò che egli sperava di incontrare.[6]
Ognuno di questi cento racconti potrebbe prestarsi ad essere citato, ogni riga o quasi meriterebbe una piccola riflessione. Specchio dello stato d’animo dell’autore, che ha voluto riprodurre: «il ritmo degli stati d’animo che si succedevano assolutamente incompatibili tra loro, come le ipotesi di universo di volta in volta narrate…».[7]
Manganelli non ha peccato di superbia affermando che ciascuna delle sue centurie contiene un mondo. Al lettore (quello di ieri, quello di oggi, quello del futuro e quello che mai verrà) rimane il piacere, sublime, di perdercisi dentro.
[1] Giorgio Manganelli, Hilarotragoedia, Adelphi, 1987 (p. 9).
[2] La citazione viene dalla nota al testo di Paola Italia (p. 303).
[3] Giorgio Manganelli La letteratura come menzogna, Adelphi, 1985 (pp. 219-221).
[4] Centuria (p. 81).
[5] Centuria (p. 91).
[6] Centuria (p. 203).
[7] Anche questa citazione è contenuta nella nota al testo di Paola Italia (p. 289).