Autore: Simone Giulitti

“Quello alto”. Umanista, information architect, UX designer. Di tutto un po'.
Lettore onnivoro con la passione dei libri usati.

Obabakoak di Bernardo Atxaga

Obabakoak, Obaba Koak ovvero Storie di Obaba come traduce lo stesso Bernardo Atxaga (al secolo Joseba Irazu Garmendia) nel prologo a questa raccolta di racconti. Atxaga è considerato il più importante scrittore in lingua basca, e proprio nel prologo di questo libro parla dell’euskera, la sua lingua, una di quelle lingue che: «non hanno sorelle sulla terra». L’identità linguistica come legame fondamentale di una comunità è uno degli aspetti che stanno a cuore all’autore, e uno dei motivi per cui sono state scritte le storie di questo libro. Obaba infatti è un paese immaginario, ideale rappresentazione di un paese qualunque della comunità autonoma dei Paesi Baschi, al quale, appunto, l’autore appartiene.

Già pubblicata nel 1991 da Einaudi la raccolta, tradotta da Sonia Piloto Di Castri, è tornata lo scorso anno nelle librerie, edita da 21 lettere, con una coloratissima copertina verde lime che attira subito l’attenzione. 

Ramarro verde, simile a quelli descritti nei racconti di Obabakoak
Photo by Elisabeth on Unsplash

Se è vero che un libro non andrebbe giudicato dalla copertina è altrettanto vero che una grafica che sappia farsi notare gioca un ruolo chiave nel catturare l’attenzione di un potenziale lettore. Così è stato per me almeno, una copertina accattivante è stata un tramite per conoscere un altrimenti sconosciuto autore nel quale non mi ero ancora imbattuto… o almeno così credevo. Approfondendo un po’ la figura di Bernardo Axtaga infatti viene fuori che è anche autore di libri per bambini e ragazzi, e tra le sue opere figura anche Asini Rock1 una copia del quale era presente nella libreria del me decenne. Insomma, un paio di decenni più tardi è stato piacevole ritrovare un autore che avevo letto, e per quel che ricordo anche apprezzato, da bambino. Questo inciso vuole essere un piccolo aneddoto sui piaceri riservati a noi lettori, e non è un caso forse che sia capitato proprio con la lettura di un libro che di spunti e riflessioni sulla lettura e sul racconto ne fornisce diversi.

La raccolta è divisa in 4 sezioni o capitoli: Infanzie, Nove parole in onore del paese di Villamediana, In cerca dell’ultima parola, Una sorta di autobiografia. Il filo rosso che unisce tutti i racconti e l’ambientazione che fa da sfondo, Obaba o un paese simile, che talvolta è il vero protagonista della narrazione, mentre in altri casi rappresenta una cornice all’interno della quale si sviluppano altre storie. Spesso sono proprio i personaggi che vestono i panni del narratore, è così ad esempio per la terza sezione del volume, un’unica grande storia che ne contiene all’interno molte altre. 

Nella sezione intitolata Infanzie si racconta di figure emarginate da una popolazione, quella di Obaba chiaramente, chiusa e legata alle proprie tradizioni, che non vede di buon occhio chi per qualche ragione si discosta dalla norma. Sono racconti un po’ sospesi tra la modernità e un passato che emerge nei comportamenti o nelle caratteristiche dei singoli protagonisti come dell’intera popolazione del paese, che rappresenta quasi un personaggio a parte.

Il piccolo garzone di Mugats aveva un modo di fare e degli atteggiamenti molto diversi da  quelli che ci si possono aspettare da un ragazzo di dodici anni. In lui c’era qualcosa di antico, e quando parlava lo faceva con una certa gravità, con il tono di voce di chi ha sempre vissuto all’aria aperta, nei boschi, fra le rocce della montagna, sotto le stelle. In confronto agli altri alunni della scuola sembrava una persona grande e di un’altra epoca; soprattutto di un’altra epoca.

La seconda sezione della raccolta è anch’essa racchiusa in una cornice, espediente a cui Axtaga ricorre spesso. Il protagonista infatti racconta nel racconto, diviso in nove parti, il paese castigliano di Villamediana, attraverso nove storie sono collegate l’una all’altra, ciascuna delle quali dedicata a un aspetto diverso del paese, o a un diverso personaggio, e che si può leggere come un piccolo racconto a sé stante.

Un tipico paese dei Paesi Baschi, ai quali Obabakak è ispirato
Photo by Eric Prouzet on Unsplash

Il terzo capitolo del libro, In cerca dell’ultima parola, è il più corposo e ricco di racconti del volume. Tra i tanti mi ha colpito Il servo del ricco mercante una variazione sul tema dell’inevitabilità della morte, della storia resa popolare in Italia dalla canzone Samarcanda di Roberto Vecchioni, con la quale forse il racconto condivide l’ispirazione di origine orientale. Atxaga fa di più che riproporre la storia, e in un altro racconto, intitolato Dayoub, il servo del ricco mercante, immagina un nuovo finale per una questa storia antica, dove è la morte ad essere beffata.

Quella di Atxaga è un’opera fortemente metanarrativa, e tra un’avventura e l’altra i protagonisti si interrogano sul tema del racconto, organizzando sessioni di lettura animate da vecchi zii che recitano la parte dei custodi della tradizione e giovani nipoti affascinati dalla modernità. Tra tutti spiccano titoli come A proposito dei racconti, Come scrivere un racconto in cinque minuti e Breve esposizione sul metodo per plagiare bene, vere e proprie chicche che piaceranno a qualunque lettore e scrittore.
Riporto un breve estratto dal terzo dei racconti citati, per dare un’idea del tono generale:

Una notte mi accadde di fare un brutto sogno, nel quale vedevo me stesso nel bel mezzo di una selva, aspra, selvaggia e forte. E poiché la selva era immersa nella più fitta oscurità e pullulava ovunque di ogni sorta di fiere, temendo che in quel luogo sarebbero finiti i miei giorni, ero oltremodo sgomento.

Familiare, vero? In questo caso però la funzione di guida salvifica non è affidata a Virgilio, ma a Pedro Daquerre Azpilicueta, uno dei principali scrittori baschi del diciassettesimo secolo, che come suggerisce il titolo consiglia al giovane scrittore di plagiare con astuzia le opere del passato piuttosto che perdere tempo a crearne di originali. Perché in fondo «tutte le belle storie sono già state scritte, e se non sono state scritte, vuol dire che erano brutte».

Nell’ultima, breve breve sezione della raccolta Axtaga traccia un’autobiografia della propria vita, immaginandola come un gioco dell’oca. Non si tratta propriamente di un racconto, piuttosto di una riflessione in cui l’autore torna a occuparsi della lingua basca riflettendo sulla sua condizione di scrittore, sulla necessità di scrivere libri in euskera, e sulle difficoltà dovute alla  mancanza di antecedenti (che esistono, ma non sono sufficientemente numerosi a detta di Atxaga) per creare un linguaggio letterario comune:

Se un lettore legge un romanzo con molti dialoghi, è probabile che non veda gli iterati “disse”, “rispose” e “replicò” del testo. Quelle parole sono lì, ma per lui sono come gli alberi del suo viale: li ha visti tante volte che non li nota più, non ci fa caso. Scrivendo in euskera, non ho problemi con disse (esan), o con rispose (erantzun); ma comincio ad averne con replicò (arrapostu), proprio per il fatto che non è familiare al lettore, perché è come un albero che conosce, sì, e che però non hai mai visto in quel viale. E lo scrittore basco sa che il lettore si soffermerà su quella parola, che la sentirà come un’interferenza. Sono dell’opinione che la prima regola di un linguaggio letterario sia quella di non infastidire. Ed è lì, nella mancanza di antecedenti, nella mancanza di un numero di libri sufficiente a creare un costume, il punto dolente

Questo, come racconta egli stesso, non ha impedito all’autore di produrre, e con Obabakoak (che è stato pubblicato per la prima volta nel 1988) e i suoi lavori successivi ha sicuramente contribuito al rafforzamento della tradizione letteraria basca.

Il mio consiglio è quello di lanciarvi nella lettura, e di lasciarvi trasportare dalle atmosfere di questo piccolo gioiello letterario, che oltre a riflessioni profonde su lingua, letteratura e sull’arte dello scrivere offre al lettore molti bei racconti, con abbondanza di colpi di scena e personaggi memorabili …vi assicuro che a fine lettura non guarderete più un ramarro con gli stessi occhi.

Guida alla notte per principianti di Mary Robison

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Veduta di Pechino e dei suoi grattacieli

Pechino Pieghevole di Hao Jingfang

Fantascienza cinese dalle tinte fosche

Photo by zhang kaiyv on Unsplash

Pechino Pieghevole è una raccolta di racconti di Hao Jingfang pubblicata in Italia lo scorso luglio da Add editore e tradotta da Silvia Pozzi. La raccolta si inserisce nella corrente letteraria del chaohuan traducibile con Ultra-Irrealismo, che prende ispirazione dalle modifiche economiche e sociali incredibili che la società cinese ha subito negli ultimi 100 anni e dai problemi che ne sono derivati come conseguenza. L’Ultra-Irrealismo vuole essere l’occhio con cui la letteratura legge questa nuova realtà, in maniera simile (nelle dichiarazioni di Ning Ken, lo scrittore cinese che ha coniato il termine in un articolo apparso in traduzione inglese su Literary Hub) a quanto il realismo magico ha fatto con l’America Latina, ma con le differenze date dalla storia e dalla cultura cinese, dal diverso senso dello scorrere del tempo e dal ruolo giocato dalle nuove tecnologie, e da internet tra tutte.

Hao Jingfang utilizza la letteratura fantascientifica per interpretare questa nuova realtà cinese, immaginando futuri talvolta lontani e talvolta vicinissimi, ma tutti con la caratteristica di risultare abbastanza verosimili, tanto da inquietare il lettore e lasciarlo a fine lettura leggermente sperduto e con un senso di amaro in bocca. Quelli di Pechino Pieghevole non sono racconti dell’orrore nel senso stretto del termine, ma non di meno riescono a mettere i brividi.

Hao Jingfang, foto del 2017
Hao Jingfang, foto del 2017. Via Wikmedia Commons

Il racconto che dà il nome alla raccolta, vincitore nel 2016 del Premio Hugo per il miglior racconto, immagina ad esempio una Pechino futura, dove la popolazione è divisa in tre classi sociali con privilegi diversi a seconda del grado di ricchezza e importanza. In una città futuristica dove gli edifici sono in grado di ripiegarsi su se stessi e scomparire nel terreno, solo ai membri più privilegiati della società è concesso un numero sufficiente di ore di veglia. Per far fronte alla sovrappopolazione infatti i cittadini sono sedati artificialmente, e fatti scomparire nel ventre della terra secondo rigidi orari e turni determinati proprio dalla classe sociale di appartenenza; i membri della terza classe hanno a disposizione solo otto ore di veglia, molte delle quali passate a lavorare nell’impianto di trattamento dei rifiuti delle classi più elevate. In questo inquietante scenario muove i passi il protagonista del racconto, Lao Dao, un padre che affronterà il rischio di entrare clandestinamente da una zona all’altra per guadagnare il denaro necessario a iscrivere la figlia in una scuola di buon livello. Anche la missione che gli è affidata rientra tra i topos tradizionali del racconto, dovrà infatti consegnare una lettera d’amore ad una ragazza della classe più elevata per conto di un suo spasimante di quella immediatamente subalterna. 

«Ti dirò una cosa che non ti piace», disse «mi sa che è meglio se non ci vai. Non per altro, una volta che ci sarai andato, non cambierà granché, solo che ti sarà chiaro quanto la tua vita faccia schifo e sia priva di senso.» Lao Dao stava esplorando la parete con il piede, aggrappandosi al davanzale. «Pazienza» rispose con il fiato corto, «non mi serve andare lì per sapere che fa schifo.»

Un altra delle caratteristiche dell’Ultra-Irrealismo infatti è quella di raccontare l’essere umano, mantenendolo al centro della narrazione anche in contesti come come quello di un futuro super tecnologico, dove speranze e sentimenti sembrano non trovare posto.
Nei racconti sono presenti anche degli incisi, caratterizzati da una certa cupezza, che fanno pensare ad una critica alla società contemporanea. Così in Pechino Pieghevole:

 «eppure è così, non difenderò questo posto soltanto perché ci vivo. È che a lungo andare ci si abitua, quando ci sono troppe cose che non si possono cambiare finisci per rassegnarti.»

Così invece in Un arpa tra cielo e terra, il successivo racconto della raccolta:

È questo il destino: vedere le cose con chiarezza e sentirsi impotenti. A quel punto non si può che andare incontro alla solitudine. Quando tutti gli ideali sono crollati, badare a se stessi diventa un atto di coraggio. […] le persone trascorrono la vita dormendo, anche durante la veglia, e se pure si svegliassero di soprassalto per un incubo, si auto-ipnotizzerebbero pur di rinunciare ad avere lucidità. È meglio dormire che essere vigili, così qualsiasi cosa diventa tollerabile: la paura, le ingiustizie, la libertà negata.

Questo racconto e il successivo Al centro della prosperità  sono collegati tra loro. Raccontano infatti la stessa storia, dalla diversa prospettiva di due personaggi, marito e moglie, entrambi musicisti in un futuro molto prossimo, dove la razza umana è sul punto di essere soggiogata da un gruppo di alieni spietati e in possesso di tecnologie avanzatissime, ma che risparmiano scienziati ed artisti al prezzo di una sottomissione totale.

Paradossalmente le compagnie artistiche assunsero un ruolo difensivo, offrendo rappresentazioni quotidiane, dal momento che i teatri non subivano incursioni. Questo era il fine delle nostre esibizioni.

Sarà proprio alla musica, simbolo delle capacità artistiche del genere umano, che verranno affidate le ultime speranze di salvezza per il pianeta.

Tra i racconti migliori di questa raccolta segnalo anche Tra vita e morte che, nomen omen  racconta appunto di un giovane recentemente trapassato alle prese con la liberazione dal proprio attaccamento alla vita appena vissuta, in un racconto che dalle atmosfere mi ha ricordato molto un altro romanzo della letteratura cinese, Il settimo giorno1 di Yu Hua. Molto toccante anche il racconto Cerere in volo, che ha come protagonista il signor Ronning, bibliotecario che con la sua astronave porta storie da leggere nei pianeti satelliti colonizzati dagli umani, dove i bambini non hanno mai visto la terra e non sanno che il cielo sia blu. Anche in questo racconto la ragion di Stato è contrapposta ai sentimenti umani, un dei personaggi apostrofa così il protagonista:«Ronning, qui non stiamo parlando di sentimenti. Non vuoi capire che i sentimenti non hanno peso nell’evoluzione dell’umanità? […]».

In Pechino Pieghevole viene anche toccato il tema dei social network e del loro progressivo spersonalizzare gli utenti, più concentrati su quanto accade nel mondo virtuale che in quello reale. Ne Le stanze della solitudine ambientato in una clinica per la cura di una nuova forma di malattia che sta colpendo una grossa fetta della popolazione, e che ha come unica terapia la continua stimolazione del paziente con messaggi lusinghieri tramite appositi elettrodi, vediamo protagonista un’infermiera, che disprezza apertamente i suoi pazienti ed è tutta concentrata nel monitorare costantemente i suoi canali social, per controllare i post del ragazzo col quale ha appena rotto. 

Molti sono i temi toccati in questa raccolta, che riesce però ad avere una linea rossa di continuità data dalla costante centralità data dalla figura dell’essere umano con tutti i pregi e i difetti che lo contraddistinguono, ma che anche nei contesti più oscuri è in grado di portare una luce di speranza. La letteratura fantascientifica prova in genere ad immaginare il futuro, quella di livello buono riesce anche a farci interrogare sul presente, Pechino Pieghevole appartiene decisamente a questa seconda categoria. 

Casa fantasma

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