Ad un certo punto del suo articolo dedicato alla Trilogia di Grouse County, comparso su Minima&moralia, Gianni Montieri scrive una frase che ho riletto almeno un paio di volte, come sempre mi accade quando qualcuno riesce ad esprimere con precisione e semplicità lo stesso sentire che provo io nei confronti di qualcosa [...]
Autore: Andrea Boschi
Ferroviere ligure e mezzo laureato in filosofia,
ama Céline perché ama la musica.
Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle. Fernanda Pivano intervista Charles Bukowski
Nel 1980 Fernanda Pivano va a San Pedro per intervistare Charles Bukowski e, nel 1982, l’intervista verrà pubblicata con il titolo Quello che conta è grattarmi sotto le ascelle. Nonostante la fama di personaggio molto restio a interviste e incontri pubblici in generale, a detta della stessa Pivano [...]

Trilobiti. Il West Virginia di Breece D’J Pancake
Il West Virginia è la vera protagonista delle storie di Trilobiti che Breece D’J Pancake racconta con la stessa passione e poesia che John Denver mise nel grande classico folk-rock Take me home, country roads. I nomi dei fiumi, delle strade e dei piccoli paesi in cui vivono e si muovono i personaggi non sono solo punti di riferimento che rendono più realistiche [...]
Acid house di Irvine Welsh
Parlare di Irvine Welsh, per me, è come parlare dei miei gruppi musicali preferiti, che so non essere i migliori al mondo, e che forse non ho nemmeno più tanta voglia o interesse ad ascoltare, ma che sono, in ogni caso e senza la minima esitazione, in cima alla mia lista personale.
Welsh è tra i miei preferiti perché ho amato Trainspotting, così come buonissima parte della sua produzione, un titolo su tutti Colla. Mi ha reso, al pari di pochi altri, un lettore totalmente appagato, ed è l’unico, assieme ad un paio d’altri autori, di cui ho riletto i libri. Sicuramente l’unico ad aver riletto tre volte.
Ma soprattutto, è tra i miei preferiti perché ha rappresentato uno di quei tre o quattro momenti di rottura nella mia vita di lettore, uno di quei momenti in cui capisci che dal quel determinato libro in poi le tue aspettative cambieranno e sarai condannato a pretendere qualcosa dalla letteratura, non per forza qualitativamente più alto, e nemmeno più originale, perché non è questione di avere di più, ma è soltanto che sei consapevole che farai sempre più fatica a raggiungere una certa pienezza emotiva.

Al di là delle tematiche e dei personaggi caratterizzati in modo da restarti in testa, quello che mi ha colpito e trascinato immediatamente è stato il suo stile. Ancora una volta il come, prima del cosa. Una sua particolarità è quella di scrivere le parole così come si pronunciano, dando quindi uno specifico suono all’intera frase. C’è ovviamente lo slang scozzese e il fatto che i personaggi utilizzano termini differenti a seconda che siano inglesi oppure scozzesi, di Edimburgo o di Glasgow.
Questa scelta, come spiegato dallo stesso Welsh ad un incontro a cui ho assistito, ha anche una valenza sociale e politica, perché serve a dare il senso di unità di un determinato gruppo di persone nate e cresciute in un preciso punto del mondo. Ogni forma di dialetto o parlata è un modo di riconoscersi, di sentire l’appartenenza a qualcosa, tanto che, coloro che sono al centro delle storie, percepiscono qualsiasi altra forma differente dal loro scozzese, come una versione sporca di scozzese, l’ennesimo dialetto minore.
La stessa percezione è riservata all’inglese standard che, per la gente di Leith e dintorni, è soltanto un inglese fra tanti. Attraverso le differenze linguistiche Welsh crea spesso momenti di rivalità e tensione, talvolta scherzose, tra i personaggi. Allo scozzese che si trova al di fuori dei confini del Regno Unito, dove chi lo ascolta non sempre è in grado di coglierne la nazionalità confondendolo il più delle volte per un abitante di una qualche zona dell’Inghilterra, viene inevitabilmente da riflettere sulla propria identità e sul sensazione di inferiorità nei confronti degli inglesi:
Sentii un moto di rabbia crescermi dentro. Mi venne quasi la tentazione di fargli un pistolotto sul fatto che ero scozzese, non inglese, e che la Scozia era l’ultima colonia oppressa dell’Impero britannico. Il fatto è che non ci credo: sono gli scozzesi a opprimere se stessi con la loro ossessione degli inglesi, nutrendo la mala pianta dell’odio, della paura, del servilismo, del disprezzo e della sottomissione[1].
Irvine Welsh è nato nel 1958 proprio a Leith, quartiere difficile di Edimburgo, che è stato sfondo e fonte inesauribile di spunti per tantissime delle sue storie migliori. In questo teatro di adolescenze tristi e frustrate, dove non c’è troppo spazio per illudersi e aspirare ad un futuro migliore, calcio, droghe e rave (l’acid house è anche un tipo di musica elettronica) rappresentano le uniche evasioni.
Il calcio, e la scelta della squadra soprattutto, è un altro modo fondamentale per costruirsi un’identità anche politica. Ci sono gli Hibs, soprannome con cui i tifosi chiamano l’Hibernian, la squadra cattolica e repubblicana della città, fondata da irlandesi e con lo stadio di casa proprio a Leith; e ci sono gli accesi derby cittadini contro gli unionisti e protestanti degli Heart of Midlothian, unici momenti esaltanti di stagioni sempre sottotono. Troppo grande è il divario con le due squadre di Glasgow per competere alla vittoria del campionato. Nemmeno l’arrivo di George Best ridà speranze ai tifosi, perché quello che corricchia sul campo di Easter Road è solo il fantasma invecchiato e imbolsito della gloria che fu.
È soprattutto nei suoi primi riuscitissimi romanzi, e in Acid House, sua prima raccolta di racconti, che ci mostra la sua capacità di rendere fitto il tessuto della sua narrazione partendo da piccole storie di quartiere in grado però di restituirci un quadro più ampio della situazione politica, sociale e culturale dell’intera Gran Bretagna dell’epoca, più che della sola Scozia.
Prima ancora di sfociare in prequel e sequel vari dedicati a specifici protagonisti, o in ambientazioni poco credibili per la sua penna (ad esempio la Miami di Crime), Welsh ha cresciuto i suoi personaggi nell’arco di anni, più attraverso la coralità delle voci di un determinato ambiente, disseminando luoghi, personaggi, e ricollegandone le vicende anche in libri o racconti apparentemente slegati tra loro, che non servendosi di uno stile tendente al biografico.
Acid House è il suo secondo libro, uscito nel 1994 ad un anno di distanza da Trainspotting. Contiene ventuno racconti che non si discostano molto dalle tematiche del suo esordio, e ci offre un insieme di storie, sì indipendenti l’una dall’altra, ma con alcuni fattori che ritroviamo più o meno sempre: disagio sociale, dipendenze da sostanze e anche una certa inettitudine nei confronti del mondo che sta al di fuori di certe zone di Edimburgo.
La sua città natale non è infatti l’unico luogo in cui sono ambientati i racconti. Welsh è stato cittadino d’Europa in fuga da una Scozia difficile e povera di opportunità, e ha vissuto sul proprio corpo il passaggio dal punk alla sottocultura dei rave e quello dall’eroina alle droghe sintetiche, trovandosi nel posto giusto al momento giusto per vivere queste esperienze.

Durante il suo girovagare giovanile ha vissuto infatti in tre dei massimi avamposti del divertimento e degrado europeo di quel periodo: Edimburgo, Londra e Amsterdam.
Se però sei un tossico senza soldi, ti serve a poco scappare dalla tua città, perché il senso di disagio non ti abbandona. Ecco Euan, da poco arrivato ad Amsterdam, protagonista di Eurotrash, uno dei racconti migliori a mio parere:
Potevamo trovarci in qualsiasi parte del mondo. È il centro della città che ti da il senso di dove sei. Lì dove stavo, non c’era differenza tra Wester Hailes o Kingsmead, i posti da dove, venendo qui, ero voluto scappare. Solo che non ero scappato per niente. Un bidone di rifiuti per i poveri sarà sempre uguale dappertutto, a prescindere dalla città che lo fornisce.[2]
La forma breve è stata da sempre nelle sue corde dato che anche il suo esordio bomba Trainspotting ha preso vita dall’unione e mescolanza di alcuni racconti che Welsh aveva precedentemente pubblicato su una rivista. Una volta intrapresa la strada della scrittura, passione intuita mentre provava a scrivere testi musicali, è diventato con il tempo un autore disciplinato e metodico:
Mi sveglio sempre molto presto, perché penso che l’alba sia un momento della giornata molto prezioso. Scrivo dalle 6 alle 9, e non mi fermo. Faccio colazione. Mangio molto, e bevo ancora di più, quindi devo andare in palestra. Il pomeriggio rivedo quello che ho scritto, faccio le correzioni, non sono uno che riscrive da capo tutto, modifico qua e là. Poi la sera me la prendo sempre libera. Vado spesso al cinema, da solo.[3]
L’alcolismo è la piaga sociale base nel mondo di Welsh, il minimo sindacale dell’autodistruzione.
In quegli anni di grande disoccupazione e sussidi statali, il posto di lavoro, per quei pochi che ce l’hanno, rappresenta solo l’ennesima scommessa da perdere, assieme a legami e famiglia.
Siamo ai piani bassi dell’umanità, dove le persone stanno a malapena a galla, e non con la forza di volontà, ma gonfiandosi di alcol e droghe, accatastando sesso schifoso e deludente e una sempre più insopportabile quantità di fallimenti. Se ci sono diversi modi di perdersi, e perdere chi ti sta accanto, i personaggi di Welsh lo fanno nei modi peggiori possibili, sfinendosi vicendevolmente a colpi di umiliazioni e atteggiamenti al limite della perfidia:
Lessi quella donna come una sozza carta geografica di tutti i posti dove non vuoi andare: dipendenza da sostanze varie, esaurimento psichico, ossessione da droga, sfruttamento sessuale. In Chrissie vidi una persona che si era trovata in guerra con se stessa e con il mondo e aveva cercato una vita migliore scopando e drogandosi senza capire che così scendeva solo a compromessi con i suoi problemi.[4]
Ogni tipo di sostanza è, a seconda dei casi, medicina per uno stato d’animo pessimo, o antidoto ai cattivi effetti di qualche altra droga. Droga scaccia droga. Fumare erba e bere ti aiuta a superare quel fatidico primo mese di inizio disintossicazione; l’ecstasy serve a ballare, rimorchiare, e magari eccitarsi, perché sotto eroina tutto si spegne, e il diradarsi del torpore che ti isola dal mondo è forse il momento peggiore nella giornata di un tossico. Unico scopo, la prossima dose. Non ci sono famiglie o amicizie che possano competere per importanza.
Oltre a raccontare una realtà cruda e dove la volgarità è a tratti strabordante, anche se mai gratuita in quanto coerente con lo stile parlato delle zone degradate della città, Welsh sfrutta anche fisicamente lo spazio della pagina per comporre scene surreali attraverso scritte inserite in rettangoli, o disordinate e sconnesse lungo tutto il foglio, per restituire il senso di spaesamento e disconnessione dalla realtà.
In questo modo la lettura della trama è frammentata dalle continue divagazioni dei protagonisti, come accade nell’ultimo racconto, Acid House. Seguiamo qui il lungo trip di Coco Bryce, proprio come fossimo nella sua testa, durante il quale cerca disperatamente di tenere la propria mente e il proprio corpo nel mondo, appena dopo essersi calato un acido che si rivelerà più potente del previsto. Un episodio completamente surreale e a tratti divertentissimo, oltre che una delle storie più tenere e meno sporche della raccolta.
[1] Irvine Welsh, “Eurotrash”, in Acid House, Guanda, 2005.
[2] Irvine Welsh, “Eurotrash”, in Acid House, Guanda, 2005.
[3] Intervista di Gabriella Greison a Irvine Welsh, Il fatto quotidiano 25 maggio 2015.
[4] Irvine Welsh, “Eurotrash”, in Acid House, Guanda, 2005.
Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer
Ho comprato Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer un po’ a scatola chiusa, nel senso che non sapevo bene cosa aspettarmi. In realtà è sempre così quando ti ritrovi per le mani qualcosa di Dyer. Essendo uno scrittore in grado di muoversi con grandissima abilità su qualsiasi terreno narrativo, non sapevo se avrei trovato storie di jazzisti, vere e proprie biografie, veri e propri racconti, oppure dei “classici” pezzi di non fiction ricchi delle sue impressioni ma molto vicini ad uno stile saggistico. Iniziata la lettura mi sono reso conto che le sue intenzioni erano proprio quelle di andare ad abbracciare tutte queste cose, come spiega lui stesso nella prefazione:
Quando cominciai a scrivere questo libro non sapevo esattamente che forma avrebbe preso. Mi trovavo dunque in una posizione di notevole vantaggio perché ero costretto a improvvisare (…). Ben presto mi accorsi infatti di essermi allontanato da qualsiasi tipo di critica convenzionale. A mano a mano che inventavo dialoghi e azioni capivo di avvicinarmi sempre di più al racconto.[1]

I nove mostri sacri su cui Geoff Dyer costruisce i suoi racconti, e attorno ai quali ruotano svariati altri musicisti più o meno importanti, sono Lester Young, Thelonious Monk, Bud Powell, Ben Webster, Charles Mingus, Chet Baker, Duke Ellington e Art Pepper. Non penso di osare troppo nel dire che, in un certo senso, Dyer rimodella il concetto di narrazione biografica soprattutto attraverso la sua capacità di immedesimazione nelle vite altrui, mescolando in maniera coerente e credibile realtà e finzione.
Lei guardò il suo volto reso spugnoso dal bere, e si domandò se le loro vite non avessero contenuto in sé il germe della rovina fin dalla nascita, una rovina di cui si erano presi gioco fin dalla nascita, una rovina di cui si erano presi gioco per qualche anno, ma che in realtà non avrebbero mai potuto eludere. Alcol, roba, prigione. Non è che i jazzisti muoiano giovani, è che invecchiano più in fretta. Aveva vissuto mille anni nelle canzoni che aveva cantato. Canzoni di donne ferite e dei loro uomini.[2]
Nel racconto The President ecco un esempio dello stile e della costruzione delle storie. L’incontro tra Lester Young e Billie Holiday, che si conoscevano realmente (fu proprio lei a dargli il soprannome The President), è lo spunto per una riflessione sulla rassegnazione per la direzione presa dalle rispettive vite, forse fin dalla nascita destinate ad essere così. Qualcosa che il jazz aveva aiutato a far venire fuori, lei con la sua voce e lui col proprio strumento.
Alcol e droghe sono stati fattori comuni di un gran numero di jazzisti importanti, praticamente tutti quelli di questa raccolta. Le conseguenze sono state a volte il carcere e a volte anche le cliniche psichiatriche. Tante morti premature, certo, ma più che altro un consumare se stessi ad una velocità impressionante. Come ci fa notare Geoff Dyer nell’altrettanto ricca postfazione, i musicisti erano continuamente sotto pressione e al lavoro, proprio perché composizione, jam session e concerti erano fluidi che si mescolavano continuamente, diventando una cosa sola, serata dopo serata. Il jazzista, oltre che artista, era anche un mestierante che si ritrovava a suonare spesso con band sempre diverse, mettendosi in viaggio dopo ogni concerto. Non poteva concedersi il lusso di aspettare l’ispirazione per suonare.
E proprio come i musicisti, Geoff Dyer è davvero attento alla dinamica delle sue storie, modulando il tocco e l’intensità della sua scrittura, nell’alternanza tra gli episodi di vita quotidiana e i momenti in cui i protagonisti si legano e si fondono con il proprio strumento. Amante anche della fotografia, alla quale ha dedicato vari scritti, Dyer sostiene che proprio il jazz sia stato uno dei massimi beneficiari dell’arte fotografica, perché in grado di cogliere tanto l’estetica della frenesia sul palco quanto la calma, talvolta la malinconia, nascoste sui volti dei musicisti nei momenti di attesa nei camerini o durante la composizione di nuovi pezzi.
Una delle caratteristiche migliori di Geoff Dyer è però la sua capacità di vedere spiragli in qualsiasi altra forma d’arte oltre alla scrittura, sfruttando qualsiasi particolare per attaccarci una storia, costruendoci un racconto.
Ed è anche partendo dalle immagini, oltre che da aneddoti ed episodi raccolti nelle varie biografie ufficiali o libri sulla storia del genere, che Dyer alimenta la propria immaginazione. La narrativa prende così le sembianze del jazz in cui, parafrasando l’autore stesso, il rapporto sfuggente tra composizione e improvvisazione continua a permettergli di autogenerarsi continuamente. Parte da un punto fermo, statico, come una foto appunto, per poi aprire completamente la scena dandole movimento, immaginando l’azione dei corpi e le loro parole. Anche gli oggetti prendono vita attraverso i dettagli, così come i tanti flussi di pensieri. Ecco come descrive Thelonious Monk, che le cose preferiva suonarle con quella sua fisicità unica, più che dirle:
Suonava con le mani spalancate, appiattite sui tasti, le punte delle dita quasi rivolte all’insù anziché piegate a martello. […] Non gli piaceva uscire dal suo appartamento, e le parole non ne volevano sapere di uscirgli di bocca. Invece di venirgli fuori dalle labbra, gli ritornavano in gola, come un’onda che rotolasse all’indietro verso il mare aperto anziché infrangersi sulla spiaggia. In musica non faceva concessioni, aspettava solo che il mondo capisse il suo lavoro, e con il linguaggio era la stessa cosa: aspettava che la gente imparasse a decifrare i suoi grugniti e i suoi ugolii modulati.[3]
Con una metafora bellissima ci fa capire immediatamente il soggetto, la sua attitudine nella musica e nella vita.
Non servono date di nascita, o di concerti o incisioni di dischi. Non c’è nulla di cronologico, ma solo a volte nomi di canzoni o di artisti da cui ciascun protagonista è stato ispirato, oppure con i quali ha suonato. La sostanza di queste storie è l’amore assoluto per questo genere di musica, perché per loro è la cosa più importante di tutte, l’unica a cui attaccarsi davvero, fino entrarci dentro, perché semplicemente non sembra esserci altra soluzione o via di fuga, come ci suggerisce Monk:
Vedi, il jazz ha sempre avuto questa cosa, il fatto che tutti si dovesse avere il proprio sound; per questo c’è un sacco di gente che magari non ce l’avrebbe fatta nelle altre arti: gli avrebbero appiattito le loro idiosincrasie, per così dire […] E così c’è un mucchio di gente nel jazz che la sua storia e i suoi pensieri sono diversi da quelli di tutti gli altri, tantoché senza il jazz loro non avrebbero mai avuto nessuna possibilità di tirare fuori tutte le loro idee e tutta merda che avevano dentro. Ragazzi che in qualsiasi altra professione – come banchieri o anche idraulici – non ce l’avrebbero mai fatta: con il jazz potevano essere dei geni, senza sarebbero stati niente.[4]

Leggendo i suoi racconti, ho avuto anche un po’ l’impressione che non si possa mai davvero raggiungere la profondità di quest’arte, in cui l’improvvisazione di uno o più elementi può cambiare continuamente la posta in gioco durante un concerto, in cui cogliere l’istante è fondamentale per capirsi vicendevolmente nei guizzi e nelle intuizioni, quella sensazione di immersione fisica e mentale così totale. E non è una questione di qualità, di perdersi qualcosa a livello qualitativo, ma è soltanto che il solo ascoltare forse vuole anche dire in qualche modo non esserci dentro per davvero. Dannie Richmond, all’epoca giovanissimo batterista, racconta questo tipo di esperienza suonando con il poco accomodante Charles Mingus:
Stando con lui c’erano delle volte in cui eri terrorizzato, ma c’erano anche le volte quando suonavi con un’esaltazione che non potevi provare altrove, quando ci sentivamo, più che una band, un branco lanciato alla carica sotto le urla e gli insulti di Mingus che si trasformavano in grida di incoraggiamento.
“Dai che ci siamo, dai che ci siamo, dai che ci siamo”.
La sua voce schioccava come la frusta sulla groppa dei cavalli: “Yah, yah, yah”.[5]
La necessità di dover suonare spesso, in qualsiasi luogo e locale e con qualsiasi band con la quale non si era mai suonato prima, in orchestre più o meno numerose, unita alla necessità artistica di distaccarsi dai propri maestri per dare vita al proprio sound diversificando gli stili, hanno creato le condizioni ideali per una continua freschezza e rinascita del genere.
Composizioni originali che diventano degli standard (in quale altro sistema comunicativo può accadere che un grande classico sia preso a modello, da adottare e adattare a proprio piacimento?). Provate a pensare a Tolstoj in una collana di stereotipi letterari.[6]
Quello che le storie di Natura morta con custodia di jazz ci dicono è quanto in realtà il jazz sia stato popolare e presente ovunque in tutto il Novecento, benché oggi sia forse considerato un ascolto per orecchie “colte”, sempre che questo genere di cose abbiano un senso (e mai come nella musica non ce l’hanno). Genere che ha letteralmente sfondato, sbriciolato le barriere razziali, scavalcando anche la censura dei regimi di destra e di sinistra che hanno provato ad ostacolarne la diffusione e che, nonostante abbia in moltissimi musicisti neri le proprie punte di diamante, ha subìto, inglobato ed elaborato qualsiasi tipo di contaminazione, contaminando a sua volta altri generi, in un’evoluzione e cambiamento continui, con buona pace di tutti quei puristi che forse lo preferirebbero come intoccabile e immobile nel suo essere considerato ascolto esclusivo.
Non a caso, Geoff Dyer cita lo storico Eric Hobsbawm che nel suo libro Storia sociale del jazz, scriveva: «il jazz ha avuto il privilegio di reclutare le proprie forze in una riserva di potenziale umano molto più vasta di qualsiasi altra forma d’arte del nostro tempo».[7]
[1] Geoff Dyer, “Prefazione”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[2] Geoff Dyer, “The President”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[3] Geoff Dyer, “Melodious Thunk”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[4] Geoff Dyer, “Melodious Thonk”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[5] Geoff Dyer, “Mingus Fingus”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[6] Geoff Dyer, “Postfazione”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[7] Geoff Dyer, “Postfazione”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
Fine missione di Phil Klay
Come spiegare il disagio e lo smarrimento di chi è tornato a casa dalla guerra e non riesce più a vivere con gli altri? Fine missione di Phil Kay ci prova con dei bellissimi racconti.
Milano calibro 9 di Scerbanenco

«Fai agli altri quello che loro vorrebbero fare a te, ma fallo prima!»
L’ Americano[1]
Sono arrivato a Giorgio Scerbanenco partendo da lontano: Quentin Tarantino.
Fin dagli inizi della sua carriera, il grande regista americano non ha mai perso occasione di rimarcare la sua grandissima passione verso il cinema italiano, specialmente per quei film di genere considerati da sempre, e più che altro da una certa critica intellettualoide e snob, di serie B. Tarantino invece ne è stato ispirato e influenzato, omaggiandoli anche attraverso diverse citazioni. Ma se di Tarantino avevo visto praticamente tutto, nulla sapevo di questo cinema che tanto lo aveva affascinato.
È stato un amico a convincermi a guardare uno di questi famigerati B-movie, dicendomi che non si trattava solo di paccottiglia tutto sparatorie, violenza e inseguimenti con l’Alfetta, ma di storie avvincenti, profonde e psicologiche, capaci di tenerti incollato allo schermo.
Così ho iniziato col botto, e cioè proprio con quello che è considerato uno dei capolavori dei film di genere made in Italy.
Il film è il primo episodio della trilogia del milieu, insieme agli altri due titoli: La mala ordina e Il boss. Milano calibro 9 di Fernando Di Leo è una classica bomba: Attori straordinari, tensione, dialoghi indimenticabili e una colonna sonora che cambia ritmo e potenza continuamente, rendendo memorabili diverse sequenze e proiettandoti immediatamente dentro questa eccezionale storia noir in cui il crimine si muove veloce nel tessuto sociale di una Milano post boom economico torbida e nostalgica. Caratteristica, questa delle bellissime colonne sonore, che ha contraddistinto moltissima produzione noir e non solo, del nostro cinema.
Ma da dove arriva questo film di Di Leo? Quindi, da dove arrivano tutto quel mondo, quel modo, quello stile e quelle tematiche? Ecco allora dove mi ha portato il mio percorso a ritroso: Milano calibro 9 è prima di tutto il titolo di una delle raccolte di racconti più famose di Giorgio Scerbanenco e una delle più importanti in assoluto della letteratura noir italiana.
Di Leo, che è stato anche sceneggiatore del film, non si era lasciato ispirare da un solo racconto in particolare, ma aveva raccolto diversi elementi da molte delle storie che compongono la raccolta. Ma la vicenda che fa da spina dorsale al film e che scatenerà poi tutti gli avvenimenti paralleli, arriva soprattutto dal racconto Stazione centrale ammazza subito, storia drammatica di un uomo qualunque che fa da intermediario nel traffico di valuta destinata a conti svizzeri. Il suo compito è quello di scambiarsi pacchi contenenti i soldi con altri corrieri dei quali non conosce assolutamente nulla. Un pesce piccolo qualsiasi preso dalla strada e che, attratto da una bella somma, aspetta il giorno di una ultima sostanziosa consegna, per poter uscire definitivamente dal giro.
Il protagonista del film, invece, è ispirato ai racconti Vietato essere felici e La vendetta è il miglior perdono. Nel primo, un uomo con alle spalle anni di crimini e galera, una volta fuori cerca di condurre una vita più o meno normale, fino a quando un vecchio socio non si fa rivedere offrendogli la possibilità di tirare su un sacco di soldi con un colpo facile facile, apparentemente senza rischi.
«Tu non hai capito bene, si tratta di venticinque milioni per te e di quindici per me, e non c’è nessun rischio.
Ho capito bene, ma non mi interessa.
Non credeva molto ai colpi perfetti e senza rischio. Franceschino non era uno stupido, ma la gente non si lascia fregare una quantità di milioni, così, senza dire neppure oh. A pizzighettone lo aveva capito, perché c’erano tutti furbissimi come Franceschino, tutti inventori di colpi straordinari che avrebbero fruttato decine di milioni e che come risultato passavano gli anni lì, a vuotare ogni mattina il bugliolo, a mangiare le patate marce, i fagioli col radicchio e la pasta con dentro gli scarafaggi»[2]
Inizialmente titubante, alla fine accetta. Il suo problema è però rappresentato da un funzionario di polizia particolarmente scrupoloso, non tanto per senso del dovere, ma perché convinto che il lupo perda il pelo ma non il vizio. Per lui un delinquente il crimine ce l’ha nel DNA.
Considera la redenzione impossibile per natura, e quindi solo una copertura per continuare a delinquere. Sente puzza di marcio ogni volta che un ex detenuto sembra rimettersi sulla retta via, decidendo così di far pedinare coloro che fuori di galera da un po’, sembrano condurre vite fin troppo oneste e tranquille. Nel secondo racconto, l’unico motivo che spinge il protagonista a tornare alle vecchie maniere, nonostante sia appena uscito di prigione dopo diciotto anni, è la vendetta.
Oltre a gangster di professione, il più delle volte circondati da un’umanità sbandata e ingenua, le protagoniste dei racconti di Scerbanenco sono molto spesso donne, di cui molte prostitute maltrattate e sfruttate, costrette a subire violenze di ogni tipo. Oppure ex criminali che restano incastrati in quel mondo al quale si vorrebbe voltare le spalle, ma che allo stesso tempo non riescono a smettere di guardare con la coda dell’occhio. È il loro mondo, quello in cui hanno sempre vissuto: misero, corrotto, senza vie di uscita anche dopo una redenzione costruita con fatica e onestà, ma il loro. La tentazione di entrare, o tornare nel giro del crimine è troppo forte anche perchè, benchè si tratti del passato, è qualcosa che continua a far parte di te, di quello che inevitabilmente sei stato.
Mi viene in mente la bellissima scena, tratta dalla serie tv crime The Wire, in cui il carcerato D’Angelo Barksdale partecipa con altri detenuti ad un gruppo di lettura sul Grande Gatsby ed espone a tutti la sua riflessione riguardo la frase di Francis Scott Fitzgerald secondo cui non esiste un secondo atto nelle vite americane:
«Vuol dire che il passato non ci abbandona mai. Da dove veniamo, cosa abbiamo fatto e come lo abbiamo fatto. Ed è importante. Pensate alla fine del libro, ok? Tutta quella storia delle barche controcorrente. Cioè, tu puoi pure cambiare, no? Puoi pure dire di essere diverso e rifarti una vita. Ma solo ciò che eri prima è ciò che sei veramente. E solo ciò che è successo prima è successo veramente. Uno non ci mette niente a dire che è cambiato, ma l’unica cosa che ti cambia davvero è quello che fai e quello che hai vissuto».
A Scerbanenco non interessa catturare il lettore con enigmi da risolvere, o indagini particolarmente cervellotiche, ma attraverso la sua prosa incalzante, fatta di poche descrizioni e poche battute di dialogo, ti fa capire immediatamente da dove arrivano e in quale ambiente si muoveranno i suoi protagonisti. Molto spesso si capisce subito chi sarà la vittima e chi il carnefice, anche se non ci sono mai dei veri giusti, dei veri buoni, perché tutti giocano sporco. Commissari, sbirri e criminali sono tutte anime contaminate, e la bravura dell’autore sta proprio nel farti entrare nell’ordine morale di quel microcosmo di personaggi, dove il lettore smette di giudicare, sospende l’indignazione e si lascia trascinare nella storia, applicando lo stesso metro di misura dei protagonisti su questioni come vendetta, risentimento, riscatto, violenza e mettendo in discussione il concetto stesso di giustizia.
« […] appena lo trovate e siete sicuri che è lui, sparate, perché è molto svelto anche lui, e non scherza neppure lui, sparate e distruggetelo in qualunque luogo vi troviate, anche in mezzo a una piazza piena di folla, non me ne importa se la polizia italiana vi prenderà, in poco tempo vi tiro fuori io, state tranquilli, e ricordatevi che questa è una Steik, per ammazzare, non per ferire».[3]
La raccolta esce nel 1969, e le sue atmosfere e tematiche sono indissolubilmente legate a quel determinato momento storico. Ed è proprio Milano a rappresentare il luogo in cui hanno inizio gli anni di piombo, uno dei periodi più bui della storia italiana, cominciato con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Ma è anche la Milano della cronaca nera locale, molto spesso non troppo considerata, e di quella microcriminalità che invece secondo Scerbanenco, che fu anche giornalista, rappresenta la realtà che sta sullo sfondo di una città violenta e comunque in crisi, all’indomani di quel miracolo economico italiano che aveva indubbiamente aumentato ed esteso il benessere della popolazione, gravando però molto su una classe lavoratrice ancora poco tutelata. È infatti sul finire degli anni sessanta che nelle grandi città cominciano le mobilitazioni di massa di operai e studenti.
Scerbanenco trova lì le sue storie. Significative le parole di George Pelecanos, che Stephen King ritiene il miglior scrittore noir d’America:
«Se ben scritto, un romanzo criminale può diventare l’arena dove mettere in scena le domande sulle nostre vite, sul dove stiamo andando come nazione. Quando scrivo queste storie sono ben consapevole delle mie responsabilità: devo attenermi al realismo, tirare dritto. I lettori mi chiedono di portarli in territori nei quali non possono o non vogliono addentrarsi».[4]
Una vita davvero incredibile quella del nostro autore. Nato a Kiev con il nome di Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko nel 1911 durante la rivoluzione russa, da padre russo e professore universitario che di quella rivoluzione fu vittima e madre romana, dopo la morte di lui si trasferì in Italia dove vissero in povertà, tanto che non finì nemmeno le elementari. Iniziò giovanissimo a fare qualsiasi tipo di lavoro, tra i quali l’operaio e, nonostante la sua formazione incompleta, il giornalista, restando così a stretto contatto con tutto quel mondo che ne influenzerà l’opera.
Fu uno scrittore instancabile e straordinariamente prolifico che oltre ai noir pubblicò romanzi rosa a puntate per svariate riviste, e tenne persino sotto pseudonimo una celebre posta del cuore su Annabella. Oltre alla raccolta in questione, i suoi romanzi più famosi sono quelli che costituiscono la quadrilogia di Duca Lamberti, personaggio considerato un classico del genere, e grazie al quale raggiunse anche una certa fama. A lui è inoltre dedicato il Premio Scerbanenco, massimo riconoscimento italiano per la letteratura noir e poliziesca.
Personalmente, quando penso a Milano Calibro 9 non posso separare il film dal libro perché, leggendo l’uno e guardando l’altro, ho sempre l’impressione di trovarmi davanti a due autori che sono riusciti quasi a completarsi, sovrapporsi, ognuno con i propri mezzi e linguaggi.
Andrea G. Pinketts, vincitore in passato del Premio Scerbanenco, usa forse l’espressione migliore sostenendo che i due si siano in un certo senso meritati a vicenda, anche senza aver mai collaborato. Comune è anche l’approccio al realismo della vita, dell’ambiente, e qui bisogna fare i complimenti a Di Leo per il suo casting eccezionale, e aver scelto le facce che hanno dato vita a quei personaggi. Su tutti svettano sia Ugo Piazza, che potrebbe tranquillamente essere uscito dalla penna dello scrittore italo ucraino, interpretato da un sorprendente Gastone Moschin negli insoliti panni dell’ex criminale chiuso, duro e riflessivo che Rocco Musco, ex amico e socio di Piazza. A dar vita e corpo a questo amico-nemico è Mario Adorf che, all’opposto di Moschin, riempie ogni volta la scena con memorabili discorsi da gangster, in un’alternanza tra l’esagerazione espressiva e mimica di colui che sembra quasi irridere invece che minacciare, e la serietà di chi un secondo dopo, con una sola mossa del sopracciglio, fa ben intendere che non c’è nessuno scherzo nelle sue parole.
Anche Di Leo, come Scerbanenco, è stato prima di tutto un mestierante, uno che per scelta ha imparato prima la parte tecnica del cinema, il “come si fa un film”, lavorando tantissimo su diversi generi e dedicandosi solo successivamente alla sceneggiatura, firmando per altro capolavori di genere non solo noir. Sue infatti le sceneggiature di Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più, che non credo abbiano bisogno di presentazioni.
Oggi considerati di culto, furono invece relegati dalla poco lungimirante critica dell’epoca, alla nicchia delle opere di genere, senza attribuire loro troppa importanza e ritenendoli non così meritevoli di considerazione, soprattutto da un punto di vista artistico.
Sorte toccata soprattutto a Di Leo che, fino alla rivalutazione dovuta anche all’ammirazione di Tarantino, era stato un po’ accantonato nel grande calderone dei “poliziotteschi” termine dispregiativo inventato dalla critica per definire il gangster movie all’italiana, cioè quei prodotti di puro intrattenimento, infarciti di commissari-eroi che risolvono tutto da soli nel bel mezzo di sparatorie e inseguimenti mozzafiato, ma che poco o nulla hanno a che fare con l’ambizione e lo stile narrativo di Milano calibro 9.
[1] Milano calibro 9, regia di Fernando Di Leo
[2] Giorgio Scerbanenco, “Vietato essere felici”, in Milano calibro 9, Garzanti, 2000 (pag.177)
[3] Giorgio Scerbanenco, “Milano calibro 9”, in Milano calibro 9, Garzanti, 2000 (pag.8)
[4] Giancarlo De Cataldo, “George Pelecanos: La letteratura è una guerra che non è mai finita”, La Repubblica, 30/09/2014
Lo Sfidante di F.X. Toole

Un giorno Mr. Nat Sobel, agente letterario di New York, riceve una raccolta di racconti sul pugilato. A mandargliela è un tizio abbastanza curioso: un ex rissaiolo settantenne con una montagna di sbronze sulle spalle, tre ex mogli, tre figli e che fra le varie cose ha combattuto i tori in New Mexico e fatto l’investigatore privato. Sobel resta impressionato e decide di cercare un editore, alla fine lo trova e Lo Sfidante (titolo originale Rope Burns: Stories from the Corner) viene pubblicata. Jerry Boyd, in arte F.X. Toole, diventa uno scrittore.
Non è tutto. Angelica Huston legge il libro e dopo aver pianto tantissimo dalla commozione, contatta un amico produttore cinematografico nel tentativo di piazzare una di queste storie a Hollywood. Per un tot di anni niente da fare, nessuno è interessato. Nessuno, tranne Clint Eastwood.
La fine di questa storia vera si chiama Million Dollar Baby: un film da quattro premi Oscar, certo, ma anche un racconto di Toole.
Quella di Boyd-Toole è la classica storia personale che viene fuori quando la fortuna, tra un rimbalzo casuale e l’altro, picchia addosso al talento di qualcuno che vive, anonimo, in quell’incasinato e polveroso mucchio selvaggio così tipicamente americano, fatto di reietti, scartati e mezzi falliti, che hanno come missione quella di campare e – magari – riuscire a rimediare ad un qualche errore o scelta avventata fatta lungo il percorso.
Terreno fertilissimo per la boxe. Ed è proprio da quel giro che arriva Toole, e si sa, da quelle parti le cose non vanno mai a finire del tutto in gloria. Non sarebbe né coerente, né estetico.
Toole getta la spugna, definitivamente, due anni prima che il film venga realizzato e diventi conosciuto in tutto il mondo, cospargendo tutta questa storia con un velo di leggerissima e romantica amarezza.
Lo Sfidante rimarrà la sua unica pubblicazione, assieme ad un romanzo uscito postumo e incompiuto dal titolo A bordo ring, che non ha però né la freschezza né l’originalità di questi racconti.
Che cosa ci sia per lui di così magico, esaltante e straordinario nel pugilato, lo racconta splendidamente nell’introduzione-confessione della raccolta, dal titolo Come entrare nel giro: un’introduzione. È una mini biografia ma, più che essere una serie di fatti cronologici della la sua vita, è la piccola storia dell’origine del suo amore per la boxe e la scrittura:
«La magia del ring è diversa da quella del teatro, perché il sipario non cala mai – e il sangue sul ring è sangue vero, e i nasi e i cuori che vanno a pezzi sono veri, e talvolta vanno a pezzi per sempre. La boxe è la magia di uomini nell’atto di combattere, la magia della volontà, della capacità, e del dolore, e di rischiare il tutto per tutto, così che uno possa rispettare se stesso per il resto della sua esistenza. Un po’ come scrivere.
Come per uno scrittore, più un pugile padroneggia la sua arte, più grande è la magia. Sia per lui, sia per gli altri».[1]
Nulla di particolarmente originale, si potrebbe di certo dire, anzi ha proprio quel gustaccio di banalotto che hanno tutti i discorsi motivazionali; ma è questa retorica del sacrificio, impastata di sudore, coraggio, fatica e dolore, senza nessun’altra speculazione filosofica, che costituisce la vera fede di ogni pugile (e scrittore). Non potrebbe essere diversamente.
Se un pugile non credesse con tutto il suo cuore che non c’è cosa più dignitosa che rialzarsi e continuare davanti ad un K.O. o ad una sconfitta, semplicemente non sarebbe un pugile. Deve crederci e basta. Le motivazioni sono tutte lì, in quella semplice magia di cui ci parla Toole.
Oppure nei soldi, se diventi abbastanza bravo da far sì che qualcuno paghi per vederti combattere. «È il business della boxe» ripete spesso l’autore.
Toole, rispetto ad alcuni grandissimi scrittori che pure hanno praticato il pugilato a vari livelli di semiprofessionismo come Hemingway e London, la sua passione l’ha vissuta da ogni prospettiva, ricoprendo praticamente tutti i ruoli che bazzicano attorno ad un ring.
È stato pugile, allenatore e “cucitagli”, ovvero colui che sta all’angolo e si occupa di sistemare ferite e sanguinamenti dei pugili per farli tornare a combattere. Forse, proprio l’aver saltato da un punto di vista all’altro, potendo così osservare la boxe in tutte le sue sfaccettature e angolazioni, gli ha permesso di non scriverne in maniera troppo idealizzata ed epica.
Ha il pregio di descrivere momenti atipici, situazioni che nessuno vede mai, aspetti privati e nascosti presenti in ogni disciplina, o arte, di cui vediamo solo l’esibizione pubblica o il prodotto finito, quando tutto è stato ripulito e il lavoro grosso terminato.
Come per ogni storia conclusa, anche dietro ad ogni match, si tratti anche del più infimo incontro da palazzetto di periferia, c’è l’enorme sacrificio, fisico e mentale, di quei pugili che al suono della campana faranno di tutto per staccarsi vicendevolmente la testa dal collo.
Ed è questo destino, che lega e accomuna coloro che salgono su un ring, a richiamare l’interesse di Toole: cioè che tutti, per tutta la carriera, negli allenamenti come negli incontri, verranno presi a botte, anche se sono dei vincenti.
Tra i suoi personaggi ci sono anche pugili viziati, manager sciacalli; attraverso le sue storie ci mostra trucchi, scorrettezze, giri di soldi, ci fa sedere all’angolo con uno dei suoi vecchi “cucitagli” e ci racconta quanto è frustrante seguire in maniera religiosa la dieta per non uscire dal peso, una vera prigione, rischiando di non combattere e perdere la borsa. Bisogna fare i conti con persone squallide, che però sono bravi pugili e soprattutto sono capaci di dare spettacolo, oltre che vincere. Vogliono solo guadagnare bene, per spendere bene. Fine.
È anche vero, però, che basta mettersi contro l’esperto uomo che sarà all’angolo, per mandare tutto a rotoli. Decisivo per rimettere in sesto le ferite, cercare di fregarlo sulla borsa o trattarlo come un povero vecchio scoppiato, è sufficiente per far finire male il match.
È il caso di Hoolie Garza, presentato così dal suo “cucitagli”, appunto:
«Fatemelo dire: Hoolie era un pugile coi controcazzi, un piccolo bastardo attaccabrighe. Con la mascella e il naso a becco che puntavano in due direzioni diverse. E pieno di cicatrici… tatuaggi dappertutto, fatti in prigione e in ogni singolo paese dove aveva combattuto, rose e pugnali, le solite cazzate… un furbo peso piuma messicano che si credeva più furbo di quello che era».[2]
Hoolie è uno dei protagonisti del primo racconto Un’aria da scimmia, quasi una storia di vendetta, che rappresenta bene il suo stile e che secondo me è anche uno dei migliori racconti del libro, insieme alla seconda storia.
L’ebreo nero racconta di Reggie Love, pugile non più giovanissimo, chiamato a fare da materasso.
«Nel pugilato il materasso è quello che perde, quello che il promoter fa incontrare al ragazzo che lui crede bravo abbastanza da diventare campione. Il materasso è quello che adoperano per fargli fare carriera. Così il ragazzo del promoter diventa un avversario da battere, comincia a beccarsi borse importanti, magari lo portano al titolo. Vincere un titolo vuol dire soldi, e per il promoter essere in pista».[3]
Il problema, per Dashiki, più giovane e promettente avversario, è che Reggie non si sente ancora sul viale del tramonto ed è intenzionato a dire ancora la sua. Entrambi potenti, colpiscono duro, ma Toole, che definisce il pugilato una scienza in cui la strategia ha un’importanza primaria, ci ricorda che «la boxe sembra una cosa di muscoli, due coglioni che se le danno in testa, lassù. Ma non si tratta di usare solo la forza, è come la si usa. La boxe è una questione di cervello, una volta che col fisico sei a posto».[4]
Se in Italia abbiamo avuto la possibilità di leggere questa raccolta e conoscere questo autore, lo dobbiamo sicuramente alla potenza del cinema, come già raccontato all’inizio, a Clint Eastwood e Hilary Swank, straordinari interpreti nel film che prende il titolo dal terzo racconto: La ragazzina da un milione di dollari.
È una storia davvero bella e commovente, ma in cui lo stile di Toole non si addolcisce troppo, nonostante alcuni passaggi davvero da pelle d’oca.
Non c’è dubbio che sia il racconto più cinematografico di tutti, reso avvincente da una precisa sequenza di inneschi drammatici, alternati a qualche successo sul ring, che porteranno all’episodio clou del racconto (forse l’unica vera forzatura ed esagerazione, in fatto di verosimiglianza), e quindi diretti al finale tragico, terribile e toccante.
Meggie, una campagnola cresciuta nel Missouri in una roulotte e con una famiglia abbastanza problematica, ama la boxe ed è determinata a combattere, e pure a fare qualche soldo per sistemarsi, ma Frankie Dunn, un vecchio coach burbero, è restio ad allenare una ragazza. Troveranno un accordo, basato su una semplice proposta fatta da Frankie «tu fai quello che dico io. Io non faccio quello che dici tu»[5]. Affare fatto. E la storia decolla.
Il mio personaggio del cuore, però, è Dangerous Dillard Fighting Flippo Bam-Bam Barch, protagonista di Acqua Ghiacciata. Un nome da combattimento semplicemente memorabile.
Dee Dee, come lo chiamano tutti per ovvie ragioni di risparmio, è un bianco, bianchissimo anzi, che per potersi allenare si è fatto dal Missouri alla California in autostop, mettendoci una settimana. Ci teneva ad essere allenato dall’ex pugile Curtis “Inno” Odom. Una storia tenerissima, di un ragazzo che nel pugilato non sfonderà mai, ma che dice a se stesso, gridandolo poi a tutta la palestra quasi a motivarsi, di voler mettere al tappeto lo storico pugile Thomas “Hitman” Hearns. Ma Dee Dee forse è solo in cerca di qualche ora di dignità. Non ci è dato sapere molto della sua vita, ma si capisce benissimo che la fortuna con lui, ha fatto il giro largo.
«Inno lavora con chiunque gli batta sulla spalla. Se sono giovani, ci lavora gratis, persino con i ciccioni, perché non puoi sapere cosa c’è dentro un ragazzo finché non viene colpito. Joe Frazier era un ciccione».[6]
I racconti che completano la raccolta, e anche i più deboli secondo me, sono Combattere a Philly e Lo Sfidante, appunto.
Resta il fatto che, forti o deboli che siano, in quasi tutte e sei le storie non c’è molto tempo per rifiatare. I ritmi sono serrati come in un incontro, dove il minuto di pausa tra una ripresa e l’altra è davvero un scheggia di tempo. Non c’è spazio per troppe riflessioni sull’esistenza, i ricordi o le nostalgie, e se ci sono passano come uno sbuffo di terra alzata dal vento, mentre mangi una torta in una tavola calda qualunque lungo la strada, pensando ai vecchi tempi dell’infanzia e ad alcune persone di cui senti sempre di più la mancanza.
Giusto il tempo di finire una torta al limone per farsi passare la fame e poi i suoi personaggi salgono in macchina e guidano verso il prossimo match, verso la prossima paga.
Toole ha una penna efficace e naturale nel puntellare questo mondo, e la precisione e musicalità dei dialoghi sono i suoi punti di forza.
Lascia intendere che il pugilato è una di quelle esperienze che, per essere capite fino in fondo, vanno semplicemente provate. Lui ci presenta il giro, ma il pregio di questi racconti è anche quello di essere avvincenti pure per chi non ha mai avuto particolare interesse verso il pugilato.
Diamo una sbirciata al backstage del grande e leale, tanto quanto sporco, mondo della boxe.
Le belle storie di redenzione sono poche, pochissime rispetto al numero di persone che inseguono una passione, ed è per questo che le belle storie non fanno statistica.
Per la maggior parte dei pugili non cambierà mai nulla, saranno solo giorni di fatica, uno dietro l’altro, finché la testa e la costanza reggeranno i colpi, le diete, gli allenamenti.
Come dice Joyce Carol Oates nel suo bel saggio Sulla boxe (consigliato più che altro agli impallinati totali) «la boxe non è una metafora, è la cosa in sé»[7]. Qui e ora.
Perché la vita causa a tutti dolori fortissimi, che si propagano anche per anni dentro di noi; ma è sempre bene non dimenticarsi che una combinazione di pugni portata come si deve fa i suoi danni. Ed è a quello che devi pensare durante una ripresa, è da quel dolore che ti devi difendere, perché lì, sul ring, quel momento fatto di carne ed ossa, fa terribilmente più male della vita.
Per concludere, se dovessi scegliere un aforisma sul pugilato, tra tutti quelli che si possono trovare sui libri o in rete, e ce ne sono davvero tanti, quello che mi piace di più, che trovo più adatto e adattabile, buono per la boxe, la vita, i sogni, insomma per tutte le stagioni, è uno solo. Una frase attribuita a Joe Louis, leggendario peso massimo, ma in realtà pronunciata da quell’altra leggenda di Mike Tyson, e che fa più o meno così: «Tutti hanno un piano, fino a quando non prendono un pugno in faccia».
[1] F.X. Toole, “Come entrare nel giro: un’introduzione”, in Lo sfidante, Garzanti, 2007 (pag.18)
[2] F.X Toole, “Un’aria da scimmia”, in Lo Sfidante, Garzanti, 2007 (pag.29)
[3] F.X. Toole, “L’ebreo nero”, in Lo Sfidante, Garzanti, 2007 (pag.53)
[4] F.X. Toole, “L’ebreo nero”, in Lo Sfidante, Garzanti, 2007 (pag.71)
[5] F.X Toole, “La ragazzina da un milione di dollari”, in Lo Sfidante, Garzanti, 2007 (pag.93)
[6] F.X. Toole, “Acqua Ghiacciata”, in Lo Sfidante, Garzanti, 2007 (pag.170)
[7] Joyce Carol Oates, Sulla boxe, 66THA2ND, 2015 (pag.89)