Giardini di sale – L’uovo di Barbablù di Margaret Atwood

Un classico esperimento per bambini è quello del giardino di sale: facendo bollire l’acqua e aggiungendo sale da cucina fino a che smette di sciogliersi, si crea una soluzione ipersatura. Grazie alla temperatura i legami chimici dell’acqua riescono ad accogliere tra loro una quantità di sale molto superiore al normale ma è, come spesso accade con la chimica, uno stato temporaneo: con l’abbassarsi della temperatura questo equilibrio si spezza e il sale torna lentamente allo stato solido. Se si immerge nella soluzione un filo o un piccolo oggetto, in breve tempo questo si ricopre di incredibili cristalli di sale, apparentemente nati dal nulla, che si incrostano nelle forme più imprevedibili.

A lei piaceva solo la neve in miniatura, il mondo chiuso e protetto dal vetro, i cristalli che si formavano sul filo, come le illustrazioni del palazzo della Regina delle nevi nel libro di Hans Christian Andersen a scuola. Non riesce a ricordare nemmeno di aver mai stupito nessuno dei suoi amici con i trucchetti del libretto di istruzioni. Le bastava stupire se stessa.

foto del Brattle Theatre

Non è un caso che le parole che avete appena letto arrivino da Il giardino di sale, un racconto di Margaret Atwood, perché le storie che scrive sono un po’ così: si depositano con calma, apparentemente crescendo in modo disordinato, accumulando sottotrame e indugiando nei dettagli, ma il lettore accorto riconosce che la foresta di sale è in realtà formata da tanti piccoli legami tra cristalli. O almeno così sono i racconti contenuti nella raccolta L’uovo di Barbablù, ritradotta da Gaja Cenciarelli e ripubblicata dopo 30 anni da Racconti edizioni, in uscita il prossimo 25 giugno. L’autrice che ha raggiunto la fama anche qui in Italia con la trasposizione in serie tv del suo romanzo distopico The Handmaid’s Tale potrebbe sorprendere chi non la conosce con ambientazioni lontanissime dal suo successo più mainstream.

Ambientati in Canada, in un lasso di tempo dilatato che fa sembrare gli anni tra il 1945 e il 1986 un lunghissimo dopoguerra, i racconti della Atwood si muovono tra le vite private di una media borghesia con inclinazioni artistiche. Sono racconti realistici, di un realismo quasi asettico. L’autrice affronta la narrazione con distacco, quasi sempre in terza persona e le poche volte che utilizza la prima i racconti sono svelatamente autobiografici: Momenti significativi nella vita di mia madre, L’uragano Hazel, Musica per dissotterramenti, raccontano episodi ambientati nella famiglia dell’autrice

I racconti, racconti molto lunghi, placidi, all’apparenza trasparenti, incolori, sono in realtà ipersaturi di informazioni, che si accumulano e crescono apparentemente in modo casuale, riportando aneddoti di famiglia, svelando curiosità e manie di una famiglia tutt’altro che normale, ma immersa in una straordinaria quotidianità che passa dall’adolescenza della narratrice all’anzianità dei genitori senza quasi accorgersi.

Figlia di una nutrizionista e di un entomologo, l’autrice può ben definirsi figlia di intellettuali bislacchi. Il padre porta ogni estate la famiglia in vacanza in una baracca di pionieri da qualche parte a Nord e insegna ai figli a riconoscere gli insetti. Quando a sedici anni decide di diventare una scrittrice di professione inizia un percorso accademico abbastanza convenzionale, ma che non si può dire abbia dato i suoi frutti. Niente avventure o esperienze da raccontare per la sua vocazione realistica, solo la quotidianità della vita che la circonda: artisti, architetti, poeti e scultrici di ceramica, donne che non lavorano per badare al marito o alla famiglia, donne che hanno un amante. Una classe sociale che ha le possibilità di rivolgere lo sguardo verso se stessi.

Nata nel 1939, un mese dopo che la Germania nazista aveva invaso la polonia, Margaret Atwood ha vissuto in una nazione mobilitata per lo sforzo bellico i suoi primi sei anni, e in quasi ogni racconto infila un orto di guerra, ricordo di una presenza lontana, dimenticata, ma che continua a vivere sottotraccia, nelle abitudini consolidate di una nazione che si sta riprendendo.

Ma non sono solo questi piccoli dettagli a rendere particolarmente uniforme e compatta questa raccolta, oltre alla voce discreta dell’autrice, che rivela la sua preparazione di poeta nell’attenzione e nell’esattezza con cui seleziona le parole e conduce sicura il lettore, tutte le voci narranti o le persone narrate sono donne. Anche quando per caso ci vengono mostrati i pensieri di Joel, che ha appena rotto con Becka nel racconto Scorfana (è il nome di una gatta, non un soprannome) la sua funzione è solo quella di portarci lentamente verso la mente di Becka, arrivarci preparati e pronti alla sua reazione sconsiderata (povera Scorfana!).

Oppure, nel racconto Il canto primaverile delle rane anche se il personaggio principale è un uomo, stanco e invecchiato che guarda a un mondo che si sta sgretolando, il suo soggetto principale sono le donne, donne che si stanno consumando, che rinunciano al loro corpo e rifiutano il cibo per la moda o per un più profondo malessere.

Eppure la Atwood non si definisce femminista, sfugge alle definizioni e agli incasellamenti. Non è neppure una scrittrice di fantascienza, dice lei, anzi, mette proprio in chiaro che lei non ha mai scritto science fiction, ma speculative fiction. Lei non scrive nulla che non sia già successo o possa realisticamente succedere, forse la nota più evidente e disturbante di chi ha letto Il racconto dell’ancella. Anzi, in una trasmissione mattutina della BBC attualmente introvabile ha specificato:

Science fiction is rockets, chemicals and talking squids in outer space.

Non c’è spazio per l’irreale, l’immaginazione. Anche quando i suoi personaggi sognano, fantasticano, ad occhi chiusi o aperti, è sempre chiaro il confine con la realtà, il sogno è sempre funzionale e interpretabile, non è mai allusivo. Il realismo magico è vietato e lo fa dire ai suoi personaggi nel racconto che da il nome alla raccolta L’uovo di Barbablù.

Poi Bertha ha letto un’altra storia, e stavolta avrebbero dovuto ricordare le caratteristiche per loro più salienti e scrivere una trasposizione di cinque pagine, ambientata al presente e descritta in modo realistico. («In altre parole» aveva detto Bertha, «nessun realismo magico.») Potevano servirsi del Narratore Onniscente, comunque: lo avevano fatto già nel compito sulla Ballata. Stavolta dovevano adottare un punto di vista. Poteva essere quello di chiunque o di qualsiasi cosa presente nella storia, ma dovevano limitarsi a uno.

Sally, la protagonista, scoprirà che anche il suo apparentemente stupido e fantastico marito Ed in realtà non è quello che sembra, ma niente sangue per noi, solo una disperazione silenziosa che avvolge piccole miserie quotidiane. I personaggi galleggiano attraverso le proprie sventure, arrancano, resistono, dimenticano, sono sopravvissuti, ma sempre rappresentati da uno sguardo obiettivo e apparentemente cinico, che in realtà e soltanto leggero e delicato, non sgualcisce troppo questi personaggi di carta che sembrano così normali e così veri.

Ritiene questa sua obiettività, questa chiarezza, quasi più deprimente del tollerabile, non perché ci sia qualcosa di odioso o repellente in lui ma perché ormai è tornato al livello ordinario, quel livello dove lei riesce a vedere ogni cosa in tutta la sua stupefacente e complessa particolarità, ma senza poterla toccare.

Come spiega la stessa Atwood, in Il sorgere del sole tramite il personaggio di una pittrice senza legami che vive la sua vita giorno per giorno e lo fa ripetere alla se stessa autrice narratrice e personaggio, in Musica per dissotterramenti, il racconto che chiude la raccolta:

Il trucco, mormoro, è di vedere le cose prima che loro vedano te. Non è la prima volta che penso che questo sia un posto infestato dai fantasmi di chi ancora non è morto, compreso il mio.

Niente dura per sempre. Prima o poi dovrò rinunciare alla mia immobilità, all’abitudine di sognare a occhi aperti, alla speculazione, e all’apatia grazie a cui sopravvivo.
Dovrò venire a patti con il mondo reale, che è composto, come ben so, non di parole ma di fognature, buche nel terreno, erbacce che si moltiplicano furiosamente, pezzi di marmo, pile di roba più o meno pesante che vanno spostate da una parte all’altra, in genere in salita.

Come farò a gestire tutto questo? Solo il tempo, che non la racconta mai tutta, saprà dirlo.

I piccoli esperimenti della Atwood sono così, obiettivi, freddi asciutti, reali. Ma allo stesso tempo percorsi da una vena lirica, che non può avere altra origine se non dallo sguardo dell’autrice, che trasforma i traumi della gente comune in sogni, in storie che vale la pena raccontare, in fantastici giardini di cristallo che però, rimangono pur sempre sale.

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