
Dove sono i racconti fantasy? Sul totale dei racconti arrivati in redazione, dopo nove numeri e quattro anni di esistenza, si contano sulle dita di una mano quelli che possono essere definiti in questo modo. Quanti valevano la pena essere pubblicati? Nemmeno uno. Questa cosa non è che non mi faccia dormire la notte, ma visto che ogni tanto ci chiedete se abbiamo preferenze riguardo ai generi dei racconti che ci inviate, mi sembrava giusto riflettere un po’ sulla loro quantità ben al di sotto di un qualsiasi limite di soglia tale poter ritenere la loro presenza rilevante. E non è un problema solo nostro. Nonostante la sua affermazione assoluta come una delle tipologie narrative più di successo della contemporaneità, basti pensare ai franchise del Signore degli Anelli del Trono di Spade e di Harry Potter (per restare tra quelli più facilmente classificabili come fantasy), il genere non ha un riferimento altrettanto forte e riconoscibile per la narrativa breve. Perché?
Intanto, cosa intendiamo per “fantasy”. Il genere stesso è più difficile da inquadrare di quanto sembra. Termini come realismo magico, letteratura fantastica, o appunto fantasy hanno caratteristiche molto diverse, e gli specialisti suddividono il marcogenere in sottocategorie sempre più ramificate: High fantasy, Urban fantasy, Sword and sorcerer, Grimdark fantasy, e sempre se non consideriamo alcune costole della fantascienza come parenti affini (Cyberpunk, Steampunk, Dieselpunk, Silkpunk…). Non è originale però la riflessione per cui i generi della contemporaneità nascono perlopiù come strategia di marketing, piuttosto che come coerente movimento letterario: con il moltiplicarsi dell’offerta è necessario, come per qualsiasi altro prodotto di consumo, che sia facilmente collocabile e riconoscibile dall’acquirente. Questo non significa che siano termini utili, ma se il nome con cui chiamiamo la detective-story è “gialli” dal colore delle copertine della prima collana dedicata al genere da Mondadori, non possiamo astrarre dal loro intrinseco significato economico. Anche il fantasy si affaccia alla Storia grazie all’editoria di massa: l’utilizzo sistematico del termine inizia dopo lo straordinario successo commerciale del Signore degli Anelli, nel secondo dopoguerra. Non è un caso che molti considerino J.R.R. Tolkien l’inventore stesso del genere: dopo la pubblicazione della trilogia si moltiplicano le imitazioni, l’editoria è assetata di qualsiasi cosa possa surrogare un hobbit, visto che il loro creatore non sembra intenzionato a scriverne mai più. Non è per forza il primo, ma questo è un altro discorso.
Da Tolkien prendiamo però un termine che ci aiuta a definire il fantasy come genere: letteratura mitopoietica. Termine utilizzato dall’autore come titolo per un breve poema didascalico, definisce l’attività di creazione di un mito. Nell’atto della creazione letteraria non si utilizzano mitologie o sistemi di credenze provenienti dal nostro mondo (Edipo, Enea, Carlo Magno, San Francesco, Thor)1 ma se ne inventano di nuove. È un’attività di creazione totale di una realtà alternativa autosufficiente e coerente con se stessa. Questo la definisce perciò in opposizione al realismo magico o al realismo fantastico, in cui sono presenti elementi soprannaturali o disturbanti, ma che intervengono sempre in un mondo che riconosciamo come il nostro, soggetto alle medesime leggi, dove a una certa ora della notte sono arrivati degli intrusi a fare macello. Nella letteratura mitopoietica invece esistono dei mondi in cui l’esistenza di esseri verdi con le orecchie a punta, o la possibilità di utilizzare un incantesimo per ripararsi gli occhiali è data per scontata. La letteratura come deliberato e libero atto di creazione al di là di ciò che può essere o non essere reale.
Bene. Questo è il fantasy di cui leggerete oggi.
Though all the crannies of the world we filled
with elves and goblins, though we dared to build
gods and their houses out of dark and light,
and sow the seed of dragons, ’twas our right
(used or misused). The right has not decayed.
We make still by the law in which we’re made.2
A differenza di quanto potrebbe venire in mente, a definire il fantasy non è l’ambientazione, o il generico riferimento al medioevo, la presenza di specifiche razze etichettate precisamente (nani: antipatici agli elfi, parlano scozzese, donne con barba) o di una mappa dettagliata dai nomi buffi. A racchiudere il nucleo originale del genere sta lo spostamento in un luogo altro di tutto quello di cui non riusciamo a parlare qui nel mondo reale: la lotta tra bene e male, due termini assoluti e perciò impresentabili nella letteratura contemporanea. Tutto il resto ne discende di conseguenza: esistono varianti, interpretazioni, correnti, sconvolgimenti e personalità autoriali come in tutti i generi, ma il nucleo rimane lo stesso. Anche le interpretazioni critiche o ironiche devono avere qualcuno di importante da prendere di mira.
Perché é proprio questa la nostra speranza per il futuro, non è vero? Che l’immaginazione vada al di là del presente per catturare non tanto un senso o un significato in ciò che ci circonda, bensì per permetterci semplicemente di vederlo per quello che è. 3
Ma quindi i racconti? Esistono veramente dei racconti fantasy brevi? Esiste qualcuno che li scrive, e altri che li leggono? La forma racconto è sempre la nicchia della nicchia, ma magari siamo in cinque e possiamo giocare a briscola chiamata.
La principale teoria di fronte alla non esistenza dei racconti fantasy è che non bastano le parole. La forma breve non è particolarmente adeguata per poter allestire una subcreazione efficiente e coerente in ogni suo dettaglio. Come posso, in quattro pagine, descrivere tutti i mostriciattoli che popolano il mio mondo immaginario? Non riesco neppure a finire i patronimici del mio eroe in un paragrafo! Scientificamente meno di un certo numero di battute non bastano per creare un mondo, è una soglia fisica insuperabile, come lo zero assoluto. A sostenere questa tesi sono i capolavori stessi del genere: trilogie, quadrilogie, tetralogie, serie infinite di libri e libri e libri ambientati tutti nello stesso mondo immaginario, che creano code nelle librerie fisiche il giorno dell’uscita dell’ultimo volume, per la felicità del mio editore. «The triumph of George R.R. Martin has made publishers greedy for multi-volume stories, but not all authors can write them – and why should they?». Scrive il Guardian, dimenticando forse che l’editore di Tolkien lo pregava in Sindarin per convincerlo a scrivere un seguito di LOTR.
La spinta economica non è trascurabile, ma la teoria ha le sue motivazioni: se il mio interesse – e divertimento di autore e lettore -principale è perdersi in un preciso mondo immaginario, perché non farlo durare il più possibile! Nella mia attività mitopoietica devo per forza avere spazio per insegnare al mio lettore tutte le regole del mio mondo, gli devo dare dei riferimenti.
Una soluzione in questo senso viene dall’ambientare i racconti brevi in un mondo che ho già creato da un’altra parte. R.R. Martin, Ursula K. Leguin, Susanne Clarke e molti altri grandi nomi della letteratura fantasy hanno pubblicato raccolte o racconti ambientate nei loro mondi immaginari: Westeros, Terramare o un’Inghilterra popolata da maghi e folletti durante le guerre napoleoniche. Molto spesso queste storie indagano un piccolo spiraglio rimasto vuoto nella narrazione principale, come ad esempio la momentanea assenza di uno dei protagonisti, che si ritrova a vivere una piccola avventura segreta avulsa dalla storia principale. È questo il caso de Le dame di Grace Adieu di Susanna Clarke, dove il primo racconto è costruito proprio con questo stratagemma: Jonathan Strange, mago, fa conoscenza con delle gentili signorine della campagna inglese, scoprendo che a quanto pare anche le donne sanno come si fanno sparire le persone. Ricco di allusioni alla storia principale, il racconto è autonomo ma invoglia a scoprire di più, nella narrazione originale. La sensazione di essere stati raggirati, e aver letto un capitolo di troppo che ha preso una strada diversa rimane.

Molto diverso l’esperimento di Ursula K. Leguin, maestra del genere e tra i pochi autori di speculative fiction (scrive anche fantascienza) ad essere considerati anche dalla critica. La regola dei nomi è un racconto ambientato nel suo mondo (un po’ post-apocalittico) di Terramare, una terra sommersa da un cataclisma marino che sopravvive su una moltitudine di arcipelaghi e isolotti. Rivelando il suo talento di autrice, la Leguin non ha necessità particolari di spiegare come funziona il suo mondo, ma lo fa lo stesso, illustrando con uno straordinario colpo di scena perché nel suo mondo magico non bisogna mai rivelare il proprio vero nome. Il piccolo villaggio, sul piccolo isolotto dove è ambientato, paga adeguatamente il suo tributo alla Contea tolkeniana, ma prosegue su una strada tutta sua, senza dimenticare mai da dove si arriva (Mr. Underhill?). Anche in questo caso però, l’autrice si sente più sicura ad utilizzare il suo mondo costruito con tanta fatica per poter mettere in scena un breve episodio.
Non è quindi comunque possibile distaccarsi da una massiccia subcreazione? La poesia ci aveva promesso di riempire le fessure del mondo con elfi e goblin, non avrei mai detto che ci volesse così tanta roba per riempire una fessura. La necessità della creazione del mondo immaginario è stata forse sopravvalutata: mappe, genealogie, lingue, sono ormai diventate un cliché ricorrente, senza mai tra l’altro raggiungere il livello del nobile predecessore. Servono tutte queste istruzioni per leggere un libro? Posso aver perso la credulità nei confronti del mito, ma i meccanismi narrativi sono ancora ben fissati nella mia mente. Se leggo Il Signore degli Anelli, non ho bisogno di essere un esperto di poesia anglosassone delle origini o un glottologo per poter comprendere quello che accade nella Terra di Mezzo: parlano lingue strane e hanno i piedi pelosi, ma ripetono azioni e schemi tipici della letteratura occidentale da millenni: so cos’è un drago, so cos’è uno strumento magico, so che se infilo la parte puntuta della spada nel mio nemico lo uccido. Il mondo di Tolkien, nato da un gioco linguistico, fatto di lingue, nomi, alfabeti, ha dovuto essere popolato di racconti che li parlassero, ma all’origine di ogni racconto c’è sempre qualcosa di molto piccolo.
In un buco nella terra viveva uno hobbit.4
Non ho bisogno di altre informazioni su questi hobbit: non compaiono in nessun altro romanzo, non sono presenti nel folklore di nessun paese, il loro nome non è un gioco di parole. Eppure ci sono tante strade che cominciano dopo quel punto, all’autore piaceva percorrerle e si è attardato, nulla impedisce ad altri di fermarsi prima.
The Gibbelins eat, as is well known, nothing less good than man.
Questo è invece l’incipit de Il tesoro dei Goblin, racconto di Edward Plunkett, 18° Barone of Dunsany, per gli amici Lord Dunsany. Nato nel 1878 e morto nel 1957, ebbe una vita avventurosa, combattendo nella Prima Guerra Mondiale, nella Guerra d’Indipendenza Irlandese (con i repubblicani) e come riservista britannico nella Seconda. È noto soprattutto per i suoi racconti fantasy, e per aver scritto quasi solo quelli. Pubblicati all’inizio del ‘900 i racconti sono ambientati molto spesso nel mondo immaginario di Pegāna, le cui atmosfere e meccanismi narrativi si rivelarono seminali non solo per Tolkien, ma anche per Lovecraft dall’altra parte dell’oceano. In questo caso però il racconto non è ambientato a Pegāna, ma in un luogo non definito, dove c’è una torre piena di goblin e un cavaliere che vuole il loro tesoro. Nulla di quello che leggiamo ci è particolarmente estraneo, se ci hanno letto delle storie da bambini prima di andare a letto. Eppure la trama allucinata e il finale sorprendente rivelano una storia modernissima, degna di una puntata di Adventure time. Anche se nel nostro folklore non sono presenti i goblin, ci viene spiegato proprio all’inizio tutto ciò di cui abbiamo bisogno: mangiano, come è noto, carne umana. C’è bisogno di altro per inquadrarli?
Allora esistono, o sono esistiti, autori di racconti brevi fantasy. La raccolta Sulle orme del re, storie nel mondo di J.R.R. Tolkien offre uno sguardo interessante sullo stato dell’arte nei primi anni novanta. Il genere è ormai maturo e i curatori pensano di raccogliere ciò che ha da offrire: con un talento sorprendente, riescono a mettere insieme in questo rarissimo esempio di raccolta di brevi storie fantasy, quanto di peggio e quanto di meglio abbia da offrire all’epoca. Nello stesso libro un gigante del genere come Terry Pratchett e alcuni racconti così banali, mal scritti e disgustosi che non sono nemmeno riuscito a sforzarmi di leggere tutte le parole. Non tutti sono ispirati a Tolkien, in uno ci sono anche degli alieni. Ma diciamo che permette di sondare con precisione la situazione. Molto più che per la forma lunga, i racconti fantastici godono di una particolare promiscuità: ospitati sulle stesse riviste, vincono gli stessi premi (Nebula, Hugo, ecc…). Che siano fantasy, di fantascienza, weird o di realismo magico, basta che funzioni. La comunità degli appassionati è in realtà da sempre molto aperta alle differenze e alle sperimentazioni, sia tra i generi che per gli argomenti trattati, anticipando di anni tematiche e discussioni che sono centrali nel dibattito contemporaneo e confermando che quando si sale di livello il “genere” è sempre relativo.
Nominato poco fa, Terry Pratchett scrive il racconto più memorabile della raccolta, dal significativo titolo di Cohen il Barbaro. Scomparso da pochi anni, Pratchett era da tempo una delle voci più originali della letteratura per ragazzi. Le sue storie ambientate su Mondo Disco sembravano essere inesauribili. Con un sapiente mix di citazioni, spregiudicata ironia e una buona dose di critica sociale, Pratchett esplorava nei suoi libri possibilità narrative mai scontate: ad esempio, cosa accadrebbe se la Morte venisse licenziata? Ma torniamo a Cohen, vecchio guerriero rimasto senza un soldo, che cerca un bel troll da uccidere per rubargli il tesoro. I tempi cambiano, le foreste vengono disboscate e anche i troll non se la passano molto bene quanto a liquidità. Con intelligente ironia, Pratchett paga il suo tributo non solo a Tolkien, ma anche – ovviamente – al personaggio inventato da Robert Ervin Howard, un culturista amico di Lovecraft che negli anni trenta scriveva su Weird Tales, pubblicando racconti fantasy.
Non è solo Pratchett, molti esempi riportati in queste righe sono racconti con un sottofondo ironico, una rielaborazione disincantata o divertita di qualcosa che dovrebbe essere un affare serio. È un meccanismo classico del riuso del materiale letterario: non è più credibile se lo prendo sul serio, ma posso sempre prenderlo in giro. Quanto ha a che fare questo con la nascita del fantasy come genere già “maturo”? In qualche modo tutti i primi tentativi tra la fine dell’800 e la metà del ‘900 sono stati dedicati a riprendere e rielaborare tradizioni preesistenti, a lavorare in un solco già tracciato da altri (e anche questa non è una novità per la letteratura in assoluto). È compito dei giovani autori trovare nuove strade che proseguano oltre le terre conosciute. Il mondo forse non ci ha ancora regalato dei racconti fantasy in grado di rivaleggiare con racconti di generi più maturi, ma forse qualcosa sta già cambiando.
P.s. E in Italia? Anche se qualcuno ci sta lavorando, il genere è ben lungi dall’essere sdoganato e soffre sopratutto la tradizionale preferenza per il realismo fantastico. In ogni caso, siamo qua, come ve la cavate a scopone scientifico?
- Che non possiamo più usare perché non ci crediamo più. Sono passati attraverso la modernità e non riusciamo più a guardarli seriamente, avete presente Don Chisciotte?
- Dal poema Mythopoeia di J.R.R. Tolkien, 1931
- Charles De Lint, L’uomo delle evocazioni, da Sulle orme del Re, Storie nel mondo di J.R.R. Tolkien
- Dall’incipit de Lo Hobbit, J.R.R. Tolkien
Forse all’interno delle saghe fantasy più famose il caso di The Witcher è l’unico che parte dal racconto per poi espandersi. I primi due volumi creano il mondo e dei legami tra i personaggi principali, ma una vera e propria saga comincia solo con l’introduzione del personaggio di Ciri.
Grazie per la segnalazione! Non è però così raro il travaso tra forme lunghe e brevi. Molto spesso all’origine di un romanzo c’è un racconto i cui personaggi sono cresciuti un po’ troppo, oppure da una piccola idea (vedi l’esempio dello Hobbit, nato mentre Tolkien raccontava una storia ai figli) nasce qualcosa di grosso.
Sapkowski è partito da un racconto scrittore un concorso letterario (dove arrivò terzo, mi chiedo cosa pensi lo sconosciuto che ha vinto del suo successo), Margaret Weis e Tracy Hickman, le cui saghe fantasy mi hanno tenuto compagnia durante l’adolescenza, sono partite scrivendo ciò che succedeva nelle loro sessioni di Dungeons and Dragons…decisamente di modi per creare un universo fantasy ce ne sono di svariati e bizzarri, anche se Tolkien, partito dalle storie raccontate ai figli e arrivato a creare alberi genealogici e lingue intere, rimane per dedizione il caso più eccessivo che io conosca 🙂
L’esempio di Dungeons and Dragons è perfetto. In generale è sufficiente un sistema di coordinate condivise in cui muoversi per poter creare un racconto in cui i riferimenti sono riconoscibili, non c’è molta differenza tra il gioco di ruolo e il Ciclo arturiano da questo punto di vista. Il fantasy a livello culturale oggi non può prescindere dai videogiochi o dai giochi di ruolo, che partecipano alla costruzione delle aspettative del lettore tanto quanto se non più dei libri stessi. Precisiamo su Tolkien, come linguista lui prima inventò i linguaggi immaginari (alcuni ancora adolescente), poi cominciò a inventarsi storie per poterli usare: questo è forse uno dei motivi per cui rimane tra i pochi, se non l’unico, i cui nomi hanno una certa “credibilità”.
Ignoravo che Tolkien avesse inventato i linguaggi prima delle storie in cui utilizzarli, grazie della precisazione.
Leggendo il tuo articolo ho pensato di mandarvi l’unico racconto “fantasy canonico” che io abbia mai scritto (ci stanno i proprio i maghi e tutte cose). Apro il documento, e sono 42k caratteri, un po’ troppi in confronto al limite di 15k 😀
Quindi forse hai ragione, il problema è che introdurre personaggi, trama E ambientazione ti costringe a tirare per le lunghe. Una soluzione potrebbe essere il metodo già citato di Sapkowski (the Witcher), ma lo stesso approccio l’hanno usato Moorcock (Elric di Melmibolne) e Howard (Conan il barbaro): tanti racconti in un unico universo narrativo, spiegando ogni volta dei pezzettini, fino a quando non c’è abbastanza carne al fuoco per farci dei romanzi veri e propri.
Ecco, io invece vorrei capire se è possibile percorrere strade alternative. È davvero necessario introdurre personaggi, trama, ambientazione in un racconto che si vuole definire fantasy? I racconti brevi, e qui sulla nostra rivista lo ripetiamo spesso, funzionano con meccanismo differenti rispetto a quelli dei romanzi: se io leggo un racconto di Cheever non ho bisogno di leggere un saggio introduttivo sulla composizione sociale dei suburbs americani per capirlo. Posso farlo, mi arricchirà, ma non è necessario: sono già, come medio fruitore di prodotti culturali occidentali, al corrente delle casine tutte uguali col prato ben rasato e i golden retriever e la limonata fresca ecc. ecc.
Tutto sommato il fantasy mitopoietico nel suo nucleo centrale non funziona diversamente, fa riferimento a conoscenze che noi tutti abbiamo perché fanno parte della nostra cultura: nessuno deve spiegarti cosa è un drago, perché lo hanno già fatto quando avevi 4 anni. I vari esempi riportati nell’articolo sono simili a quelli a cui accenni tu: ma è davvero l’unica strada? Io dico di no.
E poi l’obiettivo, almeno per noi che siamo appassionati di storie brevi, qui su Tre racconti, non è mai quello di leggere un romanzo domani, ma un buon racconto oggi. Ci può essere abbastanza carne al fuoco anche in due righe e mezzo 😉
>Tutto sommato il fantasy mitopoietico nel suo nucleo centrale non funziona diversamente, fa riferimento a conoscenze che noi tutti abbiamo perché fanno parte della nostra cultura
Ecco, su questo siamo in disaccordo 🙂 Da lettore di fantasy a mio gusto il riferimento “condiviso” (elfi, orchi, draghi ecce), pesantemente mutuato da Tolkien, ha anche un po’ stufato, perché ormai ci hanno scritto tutto e tutti.
Ci sono quindi due strade: il “low fantasy”, in cui gli elementi fantastici sono così pochi che in realtà è sostanzialmente un medioevo. E allora sì, non c’è bisogno di fare spiegoni sull’ambientazione, diamo per scontato che il lettore sappia cos’è un cavallo.
Oppure “l’high fantasy”, siamo in un mondo alieno e in cui magari l’autore passa una pagina intera a raccontarmi come l’artigiano magico prende i cocci di un vaso rotto e, cantando sottovoce, li fa aderire l’uno all’altro accarezzandoli, per fa sparire le crepe passandoci sopra il dito*.
In sintesi: se l’ambientazione non è standard serve tempo per spiegarla, altrimenti si rischia di non capircisi poi molto.
Questo, quello che volevo dirti. Poi mi è venuto in mente che qualche anno fa scrivevo su typee, che con il suo draconiano limite sul numero di caratteri ammissibili mi aveva forzato a schiacciare tutto (storia, ambientazione e protagonisti) nello spazio ristretto di una scatola di sardine, e qualcosa era venuto anche fuori. Bada, ho odiato ogni minuto in cui mi sono trovato a scrivere tenendo d’occhio il conteggio delle lettere, però qualcosa è venuto fuori, e magari anche qualcosa di non terribile. Vergognandomi un po’ lascio un link, che bisogna sempre metterci la faccia: https://www.fagufo.it/2018/09/20/il-sogno-della-lamia/
* da “La conquista dello scettro”, primo libro della saga (ancora saghe!) di Thomas Covenant l’incredulo, di Stephen Donaldson
Io non ho limitato volutamente il discorso al fantasy medievaleggiante di stampo anglosassone e derivazione tolkeniana, che però è innegabilmente predominante (poi che abbia stufato è un discorso differente). Se consideriamo il cosiddetto high fantasy come la traduzione nel romanzo epico contemporaneo della tradizione epica classica/antica/medievale, non importa se ci sono gli elfi o i djinn: ci saranno mostri, ci saranno eroi, e ci saranno una serie di stilemi narrativi che entrano in dialogo con le aspettative del lettore nello stesso modo in cui accade con il resto della letteratura. Su una base condivisa lavoro nel solco o deraglio con l’aratro, è una mia scelta artistica. Lo stesso Tolkien scombussolava le carte in tavola delle nostre aspettative nel momento stesso di fondazione del genere: donne e Hobbit < re e cavalieri, è meglio nascondersi e sopravvivere che morire con onore, ecc. ecc. Se il mio obiettivo è l'ambientazione nulla mi impedisce di lavorare solo su quello e farlo per cinque tomi, ma non è necessario. In letteratura nulla è obbligatorio, si ragiona sulle aspettative. Proprio nel caso del tuo racconto ad esempio, non sapevo cosa fosse una lamia, e non ho avuto problemi a comprendere quale fosse la dinamica narrativa: è un mostro, serpente, mediamente cattivo, boh. Poi alla fine della lettura sono andato su Wikipedia e ho scoperto l'origine del nome, interessante ma non determinante per la comprensione del racconto. Non ho o letto il brano del vasaio, ma da come lo descrivi con le giuste modifiche potrebbe essere una storia breve, se l'obiettivo dello scrittore è descrivere un gesto che sia comprensibile universalmente. Tu hai voluto condensare secoli in un racconto breve, è un'operazione letteraria anche quella: non hai dovuto descrivere ogni singolo secondo per fare capire che sono passati degli anni. Allo stesso modo io non devo aver bisogno per forza di tutte quelle pagine per ricreare certe dinamiche ambientali. Che non sia stato ancora fatto, o soprattutto fatto con profitto, non è sufficiente. La tua fatica nel limitare le parole è una tua personale preferenza nei confronti della scrittura, legittima, non un problema narratologico.