Narra la leggenda che nell’autunno del 1849, un Gustave Flaubert ventottenne ospitò nella sua casa nei pressi di Rouen i suoi due migliori amici: Louis Bouilhet e Max Du Camp. Scopo di quel ritiro era la lettura integrale de La tentazione di Sant’Antonio. Il manoscritto, di cinquecento pagine, era appena stato ultimato e Flaubert era evidentemente desideroso di declamarlo a qualcuno. Ci vollero quattro giorni. Quattro lunghi giorni di lettura.

Sebbene il desiderio iniziale fosse quello di non chiedere pareri sull’opera, alla fine il buon Gustave deve aver ceduto alla tentazione e… ne venne travolto. I due amici erano stati terribilmente annoiati da quel romanzo. La scrittura era troppo lirica, con eccessive fantasie romantiche intervallate da inutili e noiose digressioni estetiche e filosofiche, e il consiglio finale fu quello di rivolgere il suo sguardo verso qualcosa di più terra-terra. Anzi, gli venne proprio fornito un fatto di cronaca da cui trarre ispirazione. Flaubert era comprensibilmente sconsolato, ma rimuginò sul fatto che raccontava di un ufficiale sanitario e della sua seconda moglie, una bella giovinetta la quale successivamente, avrebbe collezionato una serie di infedeltà coniugali che l’avrebbero condotta al suicidio. Se la storia non vi è nuova è perché sarà proprio da questa vicenda che Flaubert prenderà l’ispirazione per scrivere Madame Bovary.
Tutta questa introduzione per dire che la scrittura di Flaubert non era, almeno inizialmente, quella che lo portò al successo. Anzi, la sua vena autoriale seguiva percorsi molto distanti da quelli che sono poi diventati i suoi titoli più noti, come appunto Madame Bovary o L’educazione sentimentale. Potremmo quasi azzardarci a dire che Madame Bovary sia stata una sorta di ‘ripiego’ (sebbene ripiego non possa essere davvero la parola giusta) rispetto a uno stile molto più lirico e fantastico, a una visione forse diversa della scrittura, una visione che nel tempo è maturata ma la cui scintilla iniziale non è mai cessata del tutto. Del resto, anche il Flaubert successivo al momento di gloria bovariano sarà differente, qualcosa d’altro, spesso molto criticato. Senza contare che La tentazione di Sant’Antonio verrà ripreso più volte durante la sua vita: nel 1856, nel 1872 e nel 1874, come a sottolineare quanto, in fondo, lui non avesse abbandonato quella scrittura.
Flaubert, insomma, non può essere relegato alla sola figura di realista, era qualcosa di più, qualcosa di altro. E se si vuole davvero conoscere lo scrittore francese a tutto tondo, se si vuole scoprire tutto quello che lo ha appassionato come autore, si può benissimo partire da quella che forse è la miglior testimonianza della sua poetica, un riassunto ben calibrato delle anime che vivevano nel corpo di Gustave. Sto parlando dei Tre racconti.
I Tre racconti furono una fuga, un momento di riposo. Durante la stesura di Bouvard e Pechuchet, che rimarrà incompiuto, Flaubert sentì la necessità di una pausa e riprese in mano La leggenda di San Giuliano Ospitaliere, un racconto su cui aveva lavorato a più riprese a partire dal 1844. A questo deciderà poi di aggiungere altri due racconti, Un cuore semplice ed Erodiade, per creare una piccola antologia. Insieme, i tre costituiscono l’ultimo, e il più breve, lavoro compiuto dell’autore.
Il primo racconto che apre il volume è Un cuore semplice, una storia che richiama il realismo e il ritratto psicologico così ben sperimentato in Madame Bovary. Qui la protagonista è Felicité, una giovane che, tradita dall’amante, diventa domestica nella casa di Madame Aubain, dove si affezionerà prima ai figli di lei, poi a un nipote e, infine, a un pappagallo, Lulù, che assumerà un’accezione quasi divina, arrivando a soppiantare la colomba di Cristo nell’immaginario della serva. Un visione religiosa dell’unica cosa cara che le restava.
Con ampi riferimenti all’infanzia dello stesso Flaubert, Un cuore semplice è forse il migliore dei tre racconti e quello che più si avvicina al Flaubert maggiormente conosciuto. Indubbie sono infatti le capacità dello scrittore di tratteggiare perfettamente la figura di Felicité, il suo pensiero, i suoi sentimenti, ma anche la continua ricerca di un legame con qualcuno, di un senso, forse, a una vita.
La leggenda di San Giuliano Ospitaliere è una storia di tutt’altro genere. Sebbene sia il secondo racconto della raccolta, rappresenta il Flaubert degli inizi, quello più fantastico, lirico, che si ricollega facilmente con l’autore de La tentazione di Sant’Antonio. Narra della vita di San Giuliano Ospitaliere, un giovane nobile dedito allo studio prima e alla caccia sanguinaria poi, che, spaventato da una profezia, si dedicherà a una vita ‘in fuga’, una fuga che non gli darà la possibilità di scappare davvero dal suo destino il quale, in fine, lo vedrà mendicante e generoso, tanto da ascendere al cielo.
Lo stile è qui favolistico, con castelli, re e regine, animali parlanti e guerre e principesse date in spose. Profezie da adempiere, altre da fuggire, e una sorta di morale finale.
Erodiade infine, è il racconto storico. Quello che sta dalle parti di Salammbo, romanzo pubblicato nel 1862. Entrambi i lavori pescano infatti dalla storia antica, con tanto di mitologia cristiana per il racconto nel quale si segue la vicenza del Giovanni Battista, prigioniero di Erode Antipa, che perderà la testa su richiesta di Salomé. Una storia con maggiore tensione, questa, più cruda in qualche modo, dove alla carica sensuale e sfavillante del ballo di Salomé si contrappone l’incapacità di Erode e la crudezza della decapitazione.
Il bello dei Tre racconti sta proprio nel loro riuscire a riassumere in maniera così egregia le sfumature e le capacità dell’autore francese. Come scrisse Calvino nella quarta del volume Einaudi: «Sono le ultime opere che Flaubert ha portato a termine nella sua vita e rappresentano la sintesi più piena e perfetta del suo ostinato lavoro per dare alla prosa narrativa moderna un rigore e un’essenzialità quali solo la poesia in versi si era fino ad allora proposta di raggiungere».
Ed è sempre Calvino, nel suo Natura e storia del romanzo, a dire:
È un fatto che quando con Flaubert la letteratura realista tocca la sua punta massima di fedeltà ai dati dell’esperienza, il senso che ne risulta è quello della vanità del tutto. Dopo aver accumulato minuziosi particolari e costruito un quadro di perfetta verità, Flaubert ci batte sopra le nocche e mostra che sotto c’è il vuoto, che tutto quel che succede non significa niente.
Ma la vanità non è confinabile al solo racconto realistico. La vanità è in parte centro di tutti e tre i racconti, il filo conduttore che attraversa tutto il libro. Sono infatti vani i tentativi di Giuliano di fuggire al suo destino. Sembrano sempre cadere a vuoto i sentimenti di Felicité, continuamente destinati a finire. Sono vani i tentativi di fermare le accuse del Battista in Erodiade, e impossibile il tentativo di Erode di evitare una presa di posizione. Probabilmente è vana anche la stessa decapitazione. Ma sebbene tutto sia inutile, questi personaggi non possono fare a meno di continuare a cercare di raggiungere qualcosa, qualcosa che magari nemmeno loro conoscono bene. Ecco, allora, il vero centro dell’opera flaubertiana. Ecco lo spirito di Emma Bovary che si palesa sotto mentite spoglie. Perché anche questi protagonisti di queste storie così differenti tra di loro, sono in verità fratelli nel loro non poter fare a meno di fantasticare, in modo più o meno palese, di una vita diversa, di un rapporto diverso o di conclusione diversa. E non importa se non la si ottiene, si continua a provare perché, parafrasando la ormai celebre frase: Felicité, o Giuliano, o Erodiade “c’est moi!”