Amparo Dávila e quei racconti che piacevano tanto a Julio Cortázar

«Se c’è una cosa che so, è quanto costa realizzare una storia in modo accurato»: così Julio Cortázar scriveva il 20 giugno del 1959 in una lettera indirizzata ad Amparo Dávila. Lo scrittore argentino aveva letto Tiempo destrozado, la prima raccolta di racconti che Dávila aveva appena pubblicato, e ne ammirava la maestria e la tecnica, qualità che non erano scontate nella scrittura di un esordiente. 

Com’è che Dávila e Julio arrivarono a conoscersi è frutto di una di quelle meravigliose coincidenze che capitano solo un paio di volte nella vita: i due avevano un’amica in comune, Emma Susana Speratti Piñero. Emma lesse il libro di Dávila e le piacque così tanto che lo spedì a Julio, a Parigi, perché era certa che lui lo avrebbe apprezzato (quando Dávila lo seppe si arrabbiò perché Cortázar era uno scrittore che ammirava moltissimo e temeva il suo giudizio).

Nonostante la raccolta fosse disomogenea, Julio le scrisse che alcune storie raggiungevano un livello così alto che l’intero libro era una prova eccellente. D’altronde l’impresa non era semplice, neanche per un autore affermato come lui:

[…] in ogni libro che pubblico non sono soddisfatto di più di uno o due racconti. Gli altri, dopo molteplici tentativi, rifiutano di adottare quella forma forse troppo perfetta che noi vogliamo dargli. E poiché la forma non esiste di per sé, ma piuttosto è la giustificazione di ciò che è stato scritto la prova tangibile ed estetica che valeva la pena scriverlo, si deve dedurre che poche storie nascono pienamente vive, con quel diritto di durare nella memoria che è la sua forza terribile e la sua bellezza più esatta.

La forza più terribile e la bellezza più esatta a cui aspirava Amparo Dávila era il racconto dell’insolito quotidiano, “lo extraño y lo siniestro” che si sviluppa a partire dal consueto. Lei preferiva l’aggettivo “vivencial” per descrivere i suoi racconti perché è proprio l’esperienza che, secondo l’autrice, trasmette all’opera la netta sensazione di ciò che si conosce e la caratterizza per resistere «nella memoria e nel sentimento». 

Quando Julio le disse che vedeva in lei una fratellanza spirituale con Edgar Allan Poe, Dávila gli rivelò che non era mai riuscita a leggere i suoi libri. Così, durante uno dei loro confronti, Julio le regalò un’edizione delle storie di Poe che aveva tradotto: era inconcepibile che lei non lo conoscesse, tanta era l’affinità. 

Nata a Pinos, nel Messico centrale, il 28 febbraio del 1928, Amparo Dávila si trasferì a Città del Messico quand’era poco più che adolescente; l’intento era di svincolarsi da un contesto troppo ordinario per il suo temperamento ribelle. Durante gli studi universitari, lavorava come segretaria per lo scrittore Alfonso Reyes (famoso, tra le altre cose, per aver ottenuto cinque volte la nomina al premio Nobel. L’ultima menzione fu nel 1959, anno in cui vinse il nostro Quasimodo, lo stesso in cui Dávila pubblicò la prima raccolta di racconti). 

Tra il 1964 e il 1985, Amparo Dávila sposò il pittore Pedro Coronel, diventò madre di due figli e scrisse altre tre raccolte, ma non ottenne un grande riscontro dal pubblico. Solo negli ultimi anni della sua vita riuscì a conquistare l’interesse che aveva sempre ricercato e attualmente, a pochi mesi dalla sua morte, avvenuta il 19 aprile del 2020, Amparo Dávila è considerata una delle più celebri cuentiste messicane

Lo scorso settembre, la casa editrice Safarà ha pubblicato L’ospite e altri racconti, una selezione di racconti di Amparo Dávila, tradotti da Giulia Zavagna e tratti da Cuentos reunidos del 2009. E proprio nel racconto che titola la raccolta troviamo l’espediente narrativo a cui Amparo Dávila fa più spesso ricorso. La storia è quella di una donna che vive in un clima di tensione perché una creatura mostruosa ha occupato la sua casa. La minaccia è percepita, alimentata dalla paura della protagonista, ma mai svelata: la creatura non si fa catturare, non si mostra, forse nemmeno esiste. La cifra stilistica di Dávila è infatti tesa a insinuare il dubbio nel lettore che ciò che sta leggendo sia frutto dell’immaginazione di una mente disturbata. 

I racconti di Amparo Dávila si stanziano in quella sfumatura letteraria che è l’ambiguo più sinistro: ecco perché il paragone con Shirley Jackson viene abbastanza facile (anche se le due avevano uno stile differente). Queste presenze sinistre e inquietanti, inoltre, non possono che riportarci alla mente alcuni racconti dell’amato Cortázar: Omnibus e La casa occupata, per citarne un paio. 

Il dubbio non si trasforma mai in una certezza, né in una conferma né una smentita: più volte, quando si è sul punto di scoprire la natura del pericolo, accade qualcosa che ribalta le intuizioni di partenza. È lo stesso stratagemma che utilizza Charlotte Perkins Gilman in La carta da parati gialla, un racconto del 1892 – emblematico, essenziale –, meritevole di aver anticipato alcuni temi portanti che numerose scrittici hanno sviluppato nel corso dei decenni a venire: tra tutti, la legittimazione del ruolo della donna nella famiglia e la sensibilizzazione ai problemi legati alla salute mentale.

A volte vedevo centinaia di piccoli occhi attaccati al vetro gocciolante delle finestre. Centinaia di occhi rotondi e neri. Occhi brillanti, umidi di pianto, che imploravano misericordia. Ma in quella casa non c’era misericordia.

Amparo Dávila costruisce la maggior parte delle sue storie attorno a un soggetto – spesso una donna – turbato da una minaccia non ben definita, una minaccia che facilmente si presta a essere tradotta come la materializzazione di un malessere interiore, più profondo e più cupo, a cui si associa un senso d’inadeguatezza e la difficoltà di comunicare con il mondo esterno. Le donne sono sole, spaventate, chiuse in se stesse e nel proprio dolore; non necessariamente fragili, senz’altro colte in un momento di particolare fragilità. 

Ma gli uomini di Dávila non sono così banali. In Frammenti di un diario, il racconto che apre la raccolta, un uomo sperimenta il culto del dolore: lo attraversa e lo trattiene, lo vive in ogni sua fase perché vuole raggiungere la sofferenza più pura. Il tormento per una lei indefinita lo strazia e in qualche modo, e proprio per questo, lo appaga. L’ossessione ritorna in La colazione e Musica concreta, due storie che partono da diverse prospettive e convergono verso lo stesso, tragico finale. È l’amore, nei racconti di Amparo Dávila, il sentimento che nasconde il vero pericolo: quando diventa smania, nelle situazioni meno drammatiche, quand’è pazzia, nella massima estremizzazione.

Leggere Amparo Dávila è come affacciarsi in una dimensione di mezzo. Parafrasando una battuta di uno dei personaggi della raccolta, con i suoi racconti Dávila è in grado di «mescolare realtà e fantasia e fonderle insieme, ci si lascia intrappolare nel loro groviglio […]. È come partire per un viaggio verso una città che non è mai esistita».

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