Di Alessandro Busi
ATTO I: VENEZIA
Ci sono alcune scelte, nella vita, che ce le spieghiamo solo se andiamo a fondo. Sono quelle scelte apparentemente controintuitive; quelle che, quando le raccontiamo, gli altri sgranano gli occhi e, in base al grado di confidenza che ci unisce, reagiscono con sorrisi di circostanza, pacche sulle spalle o considerazioni non richieste.
Se noi spiegassimo il momento in cui abbiamo fatto quella specifica scelta e il nostro modo di vedere le cose, se li avessimo chiari noi per primi, allora anche gli altri potrebbero comprenderne il senso. Invece, restiamo noi col dubbio di aver fatto qualcosa di assurdo e chi ci ascolta con la convinzione che siamo un bel po’ strani.
Se dovessi applicare questo ragionamento a una città fra tutte, lo applicherei a Venezia.
Spesso, passeggiandovi, le ho chiesto perché esistesse, come diamine fosse venuto in mente a qualcuno di andare a vivere sull’acqua.

“Erano tutti aspiranti Gesù Cristi i tuoi fondatori?”, le ho chiesto, perso nelle calle della Giudecca. Ma non ho ottenuto risposta. Mi pare che Alberto Angela abbia affrontato questa questione in una trasmissione dedicata alla città, ma non ho mai verificato: stavolta sono io a scegliere di non approfondire.
Mi piace tenermi questo interrogativo, ma soprattutto, mi piace pensare a Venezia come a una città stramba, costruita in modo strambo, vissuta da persone strambe.
A Venezia si vive sulle spalle dei turisti ma si odiano i turisti. A Venezia si cammina sempre con i piedi storti perché tutte storte sono le pietre che pavimentano le calle[1]. A Venezia, se conosci un percorso alternativo a quello segnato per raggiungere uno specifico posto, ti senti fiero come Angus MacGyver. A Venezia, durante un aperitivo pubblico, una signora un po’ agè ti potrebbe raccontare la sua vita e confessarti che nel cassetto del comodino tiene una pistola, ma mica per fare del male agli altri, no!, per farla finita quando sarà il momento. A Venezia sono tutti aristocratici e tutti decaduti. A Venezia, se ci scrivi o se ne scrivi, hai a che fare con eredità un po’ ingombranti quali quelle di Carlo Goldoni e Thomas Mann. A Venezia, se c’è la nebbia, è Morte a Venezia. A Venezia, se c’è il sole, è Arlecchino.
Il 16 maggio del 1963, mentre l’astronauta LeRoy Gordon Cooper ammarava dopo aver stabilito il record di tempo speso nello spazio – trentaquattro ore e venti minuti -, mentre la cabina metallica coi comandi fuori uso veniva recuperata nel mezzo dell’Oceano Pacifico, a Venezia stava nascendo un bambino che immagino avesse pochi capelli biondi in testa e una voce che usava per gridare. A Venezia, questo bambino sarebbe stato registrato in anagrafe con il nome di Tiziano Scarpa.
ATTO II: TIZIANO SCARPA
Se nasci e cresci in un posto con eredità letterarie come quelle di Goldoni e Mann – già detti – nonché di Shakespeare e Pound – quest’ultimo, nel dubbio di non aver lasciato il segno, a Venezia ci si fece pure seppellire -, come diavolo ti viene in mente di fare lo scrittore?
La città è raccontata, la strada è segnata, l’impresa è impossibile. E questo è vero quanto è vero che non si costruiscono case sull’acqua.
Mi piace immaginare che questi siano stati i dubbi del giovane Tiziano Scarpa, quando sentiva di voler scrivere, ma carpiva, ovunque si voltasse, segnali chiari che gli consigliavano di evitare.
Meglio bersi un’ombra che scrivere.
Meglio leggere su una panchina di qualche campo.
Meglio fare il gondoliere, o il soffiatore di vetro, o il caricaturista a San Marco.
Assunto che, potrei metterci la mano sul fuoco, Scarpa sapeva dell’esistenza di queste alternative, come avrà deciso di perseguire comunque il suo sogno?

Non lo so e, non conoscendolo di persona, anche qui lascio che l’incerto faccia la sua parte. Quello che so è che, da questa scelta controintuitiva, nacque una delle migliori penne che abbiamo oggi in Italia. Sempre presente e mai allineato, fu una delle più interessanti voci cannibali, senza aver fatto parte dei Cannibali. Nel corso della sua carriera ha attraversato la narrativa, la poesia, la saggistica, la scrittura per il teatro.
Ha creato una lingua ad hoc per il proprio bestiario poetico. Ha portato in scena domande scomode come “Pensa di essere attualmente la persona che avrebbe voluto diventare, o non ancora?”. Si è azzardato a presentare la sua Venezia, nel suo primo romanzo, tingendo il paesaggio con una scarica di diarrea. Ha dedicato pagine commuoventi a centrifughe di lavatrici e lettere rotanti di vecchi cartelloni ferroviari. Si è fatto portavoce dei desideri di una giovane vergine del ‘700 e del suo maestro di violino e della loro relazione complicata. Ha scomposto la sua città in parti anatomiche e l’ha esaminata come si può fare con un pesce[2].
E poi, assieme a quello che immagino essere un suo amico illustratore, Massimo Giacon, nel 2007 ha pubblicato un libro senza capo né coda, un libro che nessun editore saggio e attento al ritorno economico avrebbe dovuto pubblicare: Amami.
ATTO III: AMAMI
Amami (Mondadori, 2007) è un libro che non troverete più in libreria. Mondadori non lo stampa più. Amazon lo dà “inaccessibile”, mentre per LaFeltrinelli è “fuori catalogo”.
Se state continuando a leggere con l’idea di scrivermi per prestarvelo, non pensateci nemmeno, ne sono gelosissimo. Se siete solo curiosi e se leggete queste righe nonostante, agli occhi di molti, possiate fare ben di meglio, mi fa piacere, ma occhio a raccontarlo in giro.
“Amami” è una raccolta di racconti scritti da Tiziano Scarpa e illustrati da Massimo Giacon a tema amore, o meglio, sesso, o meglio, perversioni, o meglio, relazioni, o meglio: relazioni talvolta amorose con una forte componente sessuale.
Quello che fa Tiziano Scarpa, rinforzato dai disegni chinini di Giacon, è esplorare l’animo di sessanta personaggi nell’intimità delle loro abitudini più bizzarre, quelle che forse non avrebbero raccontato a nessuno, quelle che li svelano, quelle che li rendono contraddittori e umani. Il richiamo è ai Personaggi Precari di Vanni Santoni e alla letteratura pulp, scritture animate dall’intento di rappresentare elementi al limite per raccontare tutti.
Così: Elena Reale mangia i suoi amanti per restare meno sola. Valerio Pieraschi, dopo la morte della sua famiglia, è diventato uno zombie. Tiberio Forni soffre perché ha degli organi sessuali troppo grandi, mentre Gianmarco Mililli vorrebbe un corpo meno imponente, che bilanci i suoi testicoli troppo piccoli. Gelinda Favretto ha sessantacinque anni e vorrebbe innamorarsi di una coppia di persone, da chiamare mamma e papà.
Sono storie brevi, quelle di Amami, prose poetiche, accenni, ritratti fatti da poche pennellate. Ogni vita è messa a nudo e ogni disegno lancia l’appello del titolo: una richiesta tanto semplice quanto difficile da pronunciare. Amami. Ognuno dei personaggi vive situazioni in cui la sua intimità viene messa in crisi, in cui l’incontro fra pubblico e privato genera incomprensione. Come se nessuno, a parte l’autore e i lettori, sapesse andare a fondo per capire le ragioni che portano queste persone a fare queste scelte controintuitive.
Come se con le loro storie, Tiziano Scarpa ci mettesse di fronte alle nostre richieste d’affetto, alle nostre contraddizioni apparenti, al nostro desiderio di seguire la strada che non sarebbe da seguire, al nostro intento più intimo e inespresso di costruire la nostra personale città sull’acqua.
Alessandro Busi ha pubblicato Trenta Ottobre sul quinto numero di Tre racconti. Per leggerlo, puoi scaricare il Pdf oppure sfogliare la rivista.
[1] Queste pietre sono detta in gergo maségni e questa considerazione sui piedi storti è tratta da Venezia è un pesce, libro di un certo autore veneziano che scopriremo tra poco.
[2] Il bestiario è Groppi d’amore nella scuraglia (Einaudi, 2005). La domanda è tratta da I maggiorenni (regia di Giorgio Sangati, produzione Teatro Stabile del Veneto 2015-2016). La diarrea è in Occhi sulla Graticola. Breve saggio sulla penultima storia d’amore vissuta dalla donna alla quale desidererei unirmi in duraturo vincolo affettivo (Einaudi, 1996). Le centrifughe e le lettere sono in Il brevetto del geco (Einaudi, 2015). La vergine del ‘700 è in Stabat Mater (Einaudi, 2008). La città divisa in parti anatomiche è in Venezia è un pesce (Feltrinelli, 2000).
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